“Dall’omonimo romanzo di P.T.Anderson”

Cadere nell’errore sarebbe facile se una simile indicazione fosse realmente presente sui credits finali de “Il filo nascosto”. Perché l’ultimo film del regista di “Magnolia” e “Vizio di forma” sembra davvero la perfetta trasposizione cinematografica di un grande romanzo intimista inglese. Finissima letteratura d’introspezione, audace psicanalisi sui sentimenti e indagine acuminata sugli scarti più fou degli stessi. Tante sarebbero le anime rintracciabili all’interno di una simile narrazione cinematografica, solenne adattamento di un romanzo assai più complesso in cui l’alta società londinese del dopoguerra viene tagliata come un cartamodello e quindi restituita attraverso le vicende professionali e l’imperturbabilità affettiva del protagonista, lo stilista Reynolds Woodcock, figura “realistica” ispirata al designer di moda vissuto col nome di Charles James. Ma quel romanzo, intrigante e flessuoso almeno quanto le forme dei manichini fasciati da Woodcock, fisicamente non esiste, è esso stesso fantasma. Quest’ultima, fremente e squisita opera di Anderson è tratta invece da un altro componimento, quello personale di Paul Thomas. E’ il complemento inglese ad un affresco assai più grande iniziato circa vent’anni fa, il suo romanzo sull’America. L’epos inglorioso su quegli States definiti prima “altmanianamente” attraverso l’implosione apocalittica dei suoi archetipi parentali (genitori e figli, putativi o meno, che popolano “Magnolia”) e poi specificati, da lì a ritroso, attraverso figure emblematiche di altri padri costituenti, fondatori già di sistemi economici (“Il petroliere”) o procreatori inconsapevoli di dogmi (“The master”). Famiglia, Stato, Chiesa ma anche industria (“Boogie nights”) sono gli altari istituzionali sui quali l’America di Anderson ha immolato, non solo simbolicamente, i propri agnelli e intorno ai quali il regista ha edificato i suoi impietosi e al tempo stesso umanissimi monumenti a stelle e strisce. Una narrazione cinematograficamente complessa la sua e a cui si affianca, a completamento di quell’opera di (de)costruzione identitaria del proprio paese, l’altra operazione di (ri)costruzione compiuta sui generi. Da un comico che vira verso il surreale (“Ubriaco d’amore”) al noir contaminato dagli acidi (“Vizio di forma”) fino all’attuale opera di impianto classico, quella di puro costume in cui il regista sposa gli artifizi letterari di un romanticismo ritenuto impossibile solo per approdare alle forme possibili della sua folle e perfino sadica antitesi. Che in certi casi è la sola configurazione possibile dell’amore.

Il filo nascosto” si propone, con una naturalezza che abbraccia il sublime, come un autentico romanzo sull’amore e sulle trasmigrazioni psicologiche di esso all’interno di ossessioni egocentriche, professionali ed altresì familiari (ricorrono anche qui i cordoni parentali tipici di Anderson). Woodcock – il miglior Daniel Day Lewis che si possa desiderare su schermo e forse anche l’ultimo- è lo stilista che coltiva patologicamente l’idea di una perfezione sartoriale costruita intorno alle (im)perfezioni fisiche, l’esteta distaccato che imbastisce l’abito ideale per sublimare le miserie di una femminilità mal giudicata (quella nobiltà patetica e decadente) e rispettata solo all’interno della camera familiare -la sorella Cyril- o in quella “ardente” e necrofila del ricordo (anche questo cucito quasi freudianamente sopra di sé). La sua emotività è rigida come i manichini che veste e la sessualità lignea e ingessata quasi quanto il cognome che porta (Wood-cock, sfrontata allusione di Anderson o semplice casualità?). L’impulsività invece appare quasi “uterina” e governata da un’immaturità esistenziale sugli affetti e concettuale sul resto del mondo. Più che parte di un triangolo emotivo costituito idealmente dalla domina sorella (una penetrante Lesley Manville) e da quelle donne-mannequin incrociate sulla via e poi archiviate, fra diversi gradi d’indegnità, nel proprio frigido atelier, Woodcock è autore e regista di quello schema, monarca (ma anche inconsapevolmente suddito) di un famelico reame, cronicizzato nelle sue macro ossessioni e in altre micro coazioni a ripetere, tanto compulsive quanto sterili.

Sarà Alma una cameriera-musa scovata casualmente in un albergo di provincia (la meravigliosa Vicky Krieps) a rendere più corporea e dirompente quella trilateralità immobile e spuntata, inserendo ciò che manca veramente alla figura geometrica evocata: i suoi angoli. Sarà lei a far emergere dalla penombra ogni ruolo della storia ancor prima del proprio ruolo all’interno della storia, riposizionando o invertendo ossessioni già esistenti, calmando la fame psicologica di lui e liberando altri fantasmi materni dal dagherrotipo che li imprigiona. Perchè sono necessari gesti di coraggiosa, disperata e consapevole follia per ridare alla seduzione il nome che gli appartiene e per riconsegnare (truffautianamente) il fou a quell’amore a cui è sempre appartenuto. Giusto piccole dosi da somministrare con cautela per evitare quella carneficina a cui il sadismo può portare quando la sensualità dell’iniziale pudicizia viene meno e l’amore che segue muta in ingombrante incomodo. Terzo incomodo per l’esattezza.

Il sentimento trattato da Anderson può essere ricondotto con tranquillità al concetto di appetito, tante sono le allusioni al cibo disseminate lungo la narrazione (il ristorante in cui Woodcock incontra Alma, le colazioni percepite in modo sempre diverso e le cene che dividono la coppia). L’egoismo emotivo è trasfigurato in immaturità famelica e a tratti adolescenziale (“hungry boy” lo definisce Alma al primo incontro), mentre le interpunzioni del desiderio sono paragonabili a fastidiose parentesi di cibo triturato il cui “frastuono” è da silenziare immediatamente. O almeno fin quando dall’altro lato non saliranno un languore e un’incandescenza assai più potenti della fame stessa. Quel che seguirà poi sarà una docile resa, la sedazione degli appetiti distruttivi (e delle altrettanto logoranti inappetenze), un magnifico abbandono a quel dolore da cui rinascere spiritualmente, in un sintomatico quanto allusivo accostamento al rimodellamento dei corpi operato dagli abiti di Woodcock.

Ne “Il filo nascosto” il classicismo millimetrico delle forme finisce per piegarsi alle scudisciate di un sentire decisamente più moderno, femminista ed europeo (Anderson, idealmente “colono cinematografico” del Vecchio continente, sembra voler riportare dalla sua America l’essenza smarrita del racconto europeo attraverso innesti da Truffaut e suggestioni visive dichiaratamente bergmaniane). L’incomprensione (non solo emotiva ma anche sociale) fra gli amanti nel suo racconto non si risolve in sguardi abbassati, pianti mesti o ellissi raffinate e crepuscolari ma deflagra in accuse violente, meschine ritorsioni, subdole manipolazioni e perfino in uno “stronza!” urlato a se stessi al culmine dell’impotenza (coeundi?).Anche stavolta Anderson altera i termini di un genere e nello specifico quelli del romanzo sentimentale di cui destruttura -per ricomporli subito- gli stessi rapporti di forza fra amanti, dipingendo all’interno di cornici classicheggianti non soltanto ambigui doppiopetti edipicamente irrisolti ma soprattutto sorprendenti ritratti di signora nel cuore di età sempre meno innocenti. Non gli appartiene tuttavia la presunzione di decifrare per noi la complessità insondabile del sentire umano alle prese col cuore e con l’anima (Che cosa ci rivela concretamente la scritta phantom ricamata nell’abito da sposa? Quel “never cursed”, mai dannato, è una benedizione per chi lo indosserà? Un’ammissione personale di innocenza? Il gesto di un nosferatu che rinuncia definitivamente a vampirizzare il mondo? Un monolito?). Di sicuro però, con questo suo cinema ormai compiuto, eccelso e posizionabile oltre (l’utilità di) qualsiasi giudizio critico, Anderson afferma implicitamente la tangibilità materica di quel sentire, il primato dell’obiettivo della macchina creativa (il cinema è come Woodcock) che genera i sentimenti nel momento stesso in cui li tesse sopra i suoi personaggi e li fascia intorno a noi. Cinema assoluto in ogni senso dunque. Che nell’impuntura situata fra il melò fantasma e l’ennesimo tassello filmografico d’autore, trova una nuova e diversa ragione dell’esistenza imponendosi fra gli strati più alti dell’espressione narrativa moderna. Nel suo orlo è già cucito questo intimo segreto: never forgotten. Perché Phantom Thread è già un capolavoro difficile da dimenticare.

Andrea Lupo