Si apre con uno scenario che il cinema statunitense degli ultimi 40 anni ha reso tristemente, quanto doverosamente, noto a pubblico ed opinione pubblica di tutto il mondo: i soldati che avanzano nel buio umido e opprimente della giungla vietnamita fra i fischi dei proiettili e quelle bombe che tranciano vite, arti ed equilibri mentali (di tutti, soldati, reduci e soprattutto indigeni). Si chiude con la sequenza dei due protagonisti che si incamminano fuori dal ventre “meccanico” della redazione, fra le rotative in funzione e immensi fasci di giornali che ascendono incessantemente verso l’alto. Come notizie in cerca di lettori o verità che bramano nuovi uditori.

L’immagine metaforicamente conclusiva di “The post” (il vero finale in realtà arriva dopo ed è una chiosa-ponte fra gli eventi appena narrati e il Watergate che seguirà a breve) pare quasi la versione politica e ideologicamente rovesciata nel significato di quella che chiudeva “I predatori dell’arca perduta”. Allora, nei “magazzini” del governo (sempre a Washington) il Prof. Henry “Indiana” Jones e la sua Marion assistevano alla rubricazione “top secret” di un oggetto fantastico come l’Arca dell’alleanza, reperto archeologico inesistente certo ma anche totem cinematografico concreto per gli spettatori. Il fiabesco veniva catturato dalla realtà e quindi occultato cautelativamente dall’istituzione perchè ritenuto autentico. Oggi invece l’autentico, ovvero ciò che è realmente accaduto (qui l’ignobile campagna di depistaggio intorno a una criminale operazione di guerra durata quindici anni), si libra allegoricamente verso l’alto dentro quel deposito trasfiguratosi nel frattempo in redazione. Il reale spielberghiano di oggi si riappropria di un’immagine del suo passato fantasy rivoltandola nel senso. La realtà della cronaca, ingabbiata per anni dall’istituzione governativa, si libera così dai fardelli del top secret di stato trasformandosi in un altro totem più concreto ed eticamente necessario: un’arca della verità metaforica, cinematografica e politicamente urgente. Non vomita più ectoplasmi biblici e rancorosi, ma pagine e pagine di scottanti dossier (i Pentagon Papers) non ancora redacted, e suggella stavolta l’unica alleanza che non dovrebbe mai venire meno nella storia di ogni paese: quella, appunto, fra il popolo e la verità.

Quanto un simile messaggio sia necessario e non più rinviabile nell’era delle memorie collettive a breve termine, del disimpegno diffuso e delle fake-tory partorite alla luce (sintetica) del web dai potenti della terra, è inutile sottolinearlo. Steven Spielberg con “The Post” quel messaggio lo ribadisce in tutta la sua gravitas etico-politica, sollevando -dopo Lincoln e Il ponte delle spie- nuovi dibattiti intorno ad antichi valori dati troppo per scontati (la libertà di stampa deve essere al servizio dei governati e non dei governanti”) e riuscendo al tempo stesso a non sovrastare con l’impegno la grazia del racconto cinematografico. Che poi si risolve, ancora una volta, in una delle sue classiche storie di formazione individuale, con la Streep incarnazione dello sguardo del regista nonchè “garante” di una visione problematica ma obiettiva sul ruolo del giornalismo. Quel senso di stupefazione fanciullesca che da sempre accompagna i protagonisti spielberghiani quando si interfacciano con storie più grandi di loro o con la “Storia” (lo stesso Oskar Schindler alle prese con olocausti indecifrabili è rappresentazione di quel candore inconsapevole), fa breccia anche all’interno della narrazione di “The Post”, determinando un approccio agli eventi che non è più soltanto storico. Così se il passato rievocato concerne l’indagine giornalistica (neanche troppo nota) condotta dal Washington Post nel 1971 e poi sfociata nella pubblicazione dei Pentagon papers (i documenti secretati dal Governo dai quali emergeva la politica consapevolmente fallimentare sul Vietnam perpetuata da quattro presidenti), è invece l’altra storia, la questione ideologico-opportunista, a diventare il vero cuore pulsante della rappresentazione. E’ fra quelle pieghe (anche psicologiche) che lo Spielberg-fanciullo si insinua con determinazione, indagando i meccanismi di corridoio, le dinamiche di controllo e quelle dell’alta società, sempre alla ricerca di tutto quello che la storia non (ci) dice sugli uomini, e soprattutto sulle donne, che fecero l’impresa. To Discover, lo scoprire è quindi, ancora una volta nella filmografia spielberghiana, operazione che porta all’anima delle cose, della Storia e naturalmente delle persone. Si tratti di discover l’amico dentro l’alieno, il sopravvissuto dietro un pugno di monete o l’uomo al di là della spia il discorso non cambia.

 

Ben Bradlee e Katherin Graham (Tom Hanks e Meryl Streep entrambi superbi), rispettivamente direttore ed editore del WP all’epoca dei fatti, incarnano due diverse forme di eroismo a metà fra ambizione, etica e salutare imprudenza. Sono loro i fanciulli spielberghiani che disvelano per noi la cronaca dell’epoca, cambiandone un frammento del corso già definito fra i palazzi arroganti e disonesti lordati di sangue (la battaglia diretta è contro Nixon ma implicitamente è contro l’intera logica presidenziale sorta dopo la Guerra Fredda). Ma se il Bradlee di Hanks è incarnazione spontanea di una democrazia spavalda e fortemente disillusa (in senso kennediano), la Graham della Streep è invece l’erede (involuta) di un sistema democraticamente effimero, che professa un maschilismo culturale ancor prima che finanziario (si veda la sequenza in cui viene redarguita circa la sua insicurezza dinanzi ai papabili della Borsa). La presa di posizione (politica, sociale e velatamente di genere) di quest’ultima nei confronti delle circostanze e soprattutto del mondo circostante, è il volo sopra la bici annunciato che tutti attendono al termine della storia. E’ il balzo che ridefinisce i destini di pochi noti (il “Post” da giornale locale divenne testata capace di ispirare tutte le altre concorrenti) nel nome dei destini di molti ignoti (i soldati, i fratelli in guerra, i figli restituiti alle famiglie come salme). La Streep fra tremori della voce, piccoli contorcimenti delle mani (straordinaria come sempre la sua gestualità) e quegli occhi che sembrano voler fuggire dal mondo invece di dominarlo con la propria intelligenza, incarna perfettamente il conflitto che divorò la Graham prima dell’artigliata sferrata alla gola di Nixon (ma era solo l’inizio). Il suo Davide insicuro, femminile e diplomatico alla fine ha la meglio sul Golia politicamente bieco, maschilista ed opportunista. E gli applausi, quando assume con fermezza “la” decisione, sono tutti per lei. Perché quelle rotative che fanno tremare le scrivanie, scuotono finalmente il mondo, dando una voce alle madri e silenziando finalmente il borbottio di tanti pusillanimi in giacca e cravatta (quelli che “la” decisione probabilmente non l’avrebbero mai presa).

Spielberg, attraverso uno dei film più belli dedicati al mondo dell’informazione (nominato all’Oscar 2018 come miglior film e miglior attrice), riporta al cinema la questione ideologica, facendo dell’etica intrinseca alla professione giornalistica non il fondo servente per una facile retorica filo-democratica, ma la materia prima per un dibattito attuale ed incandescente. Ed è un fuoco, quello su cui soffia, che spinge i suoi fumi da quell’emblematico e quasi mitico 1971 fino all’oggi più intorpidito ed agghiacciante. Bruciante proprio come la metafora che incarna, quella sulle future battaglie intorno ai temi del libero pensare e del responsabile divulgare. Battaglie che non a caso sulla locandina di “The Post” assumono significativamente la forma di una scalinata infinita e tutta ancora da percorrere.

Andrea Lupo