Interno giorno. Scale elicoidali di un edificio liberty progrediscono verso l’alto fin verso la scena di un delitto passionale. L’occhio architettonico si staglia come muto testimone di un crimine consumatosi in flagranza sotto il nostro sguardo. Ma chi guarda veramente e che cosa si sta lasciando realmente osservare? Qual è il punto di vista davvero affidabile per decifrare il senso di questo sanguigno incipit che è (forse) già finale? Nella sequenza introduttiva, chiara e velata al tempo stesso, dell’ultimo film di Ferzan Ozpetek sembra essere racchiuso il senso intimo dell’intera operazione, intesa subito a disorientare lo sguardo, giocando, più o meno scopertamente, con la metafora dell’osservatore. Che al centro vi sia un delitto, la teatrale figliata dei femminielli (velata anch’essa per tradizione), l’opera d’arte o i fantasmi ingombranti del sesso, nessuna epifania cinematografica-pare suggerire il regista- sembrerebbe possibile in assenza di un osservatore.

Poco importa poi che lo stesso non sia anche affidabile; ciò che conta è sia almeno giustificabile. Perché anche al termine della storia, dopo lo scioglimento dei nodi, i disvelamenti psicologici e le risoluzioni tranquillizzanti, noi spettatori – proprio come la protagonista- non saremo mai realmente sicuri di ciò a cui abbiamo assistito. Forse perché fin da principio inconsapevolmente complici della medesima ambiguità. Parti essenziali di un racconto misterico e serpentino, occhi esterni e collettivi a compensazione di una cecità interna e soggettiva. Eyes wide shut fisiologicamente complici col regista, Napoli tutta e col suo mesmerico e offuscante velo.

Il gioco di Ozpetek sta dunque nel precipitarci tutti -dalla Mezzogiorno incastrata fra tragedia, passato e passionalità fino a noi spettatori imbrigliati nel noir – nell’epicentro di un dramma “percettivo”, in cui ogni registro stilistico (narrazione erotica, indagine poliziesca, melò) si riduce ad appiglio illusorio, mentre lo sguardo diviene simbolo di una visione sclerotizzata della realtà (proprio come quell’amuleto di metallo ereditato dalla protagonista, feticcio allegorico e voyeuristico ma anche emblema di una “rigidità” della visione). Una messa a fuoco deliberatamente sfa(l)sata e imprecisa, tanto perturbante quanto conturbante.

Ma se l’occhio è strumento indispensabile e insieme fuorviante, lo stesso non può dirsi dei suoni, che nel film diventano correlati necessari (ad altre storie) e indizi rivelatori di passate memorie. Parlano chiaro del resto quelle allusive sequenze in cui la macchina da presa perlustra gli ambienti vuoti, catturando voci e suoni di un vissuto non (più) replicabile. Reperti impossibili che solo il cinema può provare a restituire, lambendo i bordi sensibili di ciò che è ormai remoto attraverso l’unico espediente possibile: l’artificio. La verità nel racconto di Ozpetek transita quindi sul filo leggero di quelle due dimensioni (cinematografiche): la prima -il vedere– è menzognera ma rappresentabile; la seconda -l’udire– affidabile ma non più praticabile. La tensione fra le due genera, non a caso, fantasmi, essenze indefinibili e solo in apparenza incorporee, amputazioni psicologiche e carnali dotate di vitalità e sensualità. Sono altre magnifiche presenze che traghettano idealmente dal finale del sottostimato “Rosso Istanbul” fino al cuore della narrazione di “Napoli velata” (accade anche al tema del cadavere, immagine “nodale” e risolutoria del film precedente e che qui ritorna quale elemento d’avvio e di propulsione psicologica). Fantasmi, reperti, vestigia e residui della memoria quali nuove ossessioni del regista. Eredità biografiche e cinefile che vanno riposizionandosi all’interno di un corpus filmico compiuto e felicemente autoreferenziale (“Napoli velata” è summa e rilettura di tutti i titoli che lo hanno preceduto) e che trovano nel capoluogo partenopeo una voce quasi ancestrale e soprattutto una inedita e sensuale topografia.

Raramente il cinema del regista italo-turco aveva osato essere così rischioso, teorico e perfino “esoterico” (o almeno non accadeva dai tempi di “Cuore Sacro”, altro imperscrutabile titolo attraversato dalla stessa obliquità di sguardo). Mai così catalizzante, eccitato (la calda sequenza iniziale fra Borghi e Mezzogiorno è una scossa indimenticabile nella stagione) e “posseduto” dalle sue stesse suggestioni visive o sonore (i marmi intravisti nei chiaroscuri degli scorci, il percuotere furioso dei tamburi di piazza). Quello di Ozpetek è un viaggio di sola andata fra le calle dell’ambiguità, di cui Napoli diviene specchio riflettente ed allegoria fremente e sessuale. Un viaggio in cui biografismo e ispirazione artistica ancora una volta si coniugano con la geografia dei luoghi finendo per generare inattese mappature dell’anima. Programmatiche a volte, accidentali in tal caso, ma sempre intense, intime e partecipate. Ed è durante questo omaggio-viaggio attraverso Partenope (l’altro nome di Napoli) -dove il femminino incontra il femminile, il cuore sacro diviene magico e profano e in cui l’eros non soccombe ma rinasce furioso dal thanatos- che noi osservatori necessari finiamo per smarrire il nostro ruolo e un po’ anche noi stessi. Perché viaggiando lungo le increspature di quel velo (che forse è un sudario) steso indifferente su luoghi, volti e marmi, diveniamo, senza accorgercene, parte di quello stesso gioco chiaroscurale. E proprio come la protagonista, il cui sguardo ormai è inaffidabile, infine ci riduciamo a puro suono e suggestione. Ritornando, inesorabilmente, ad essere fantasmi.

Andrea Lupo