Parafrasando Pancho Villa e Sergej Eisenstein (il titolo del suo celebre documentario sul Messico rimasto incompiuto) potrebbe essere Que viva Mexico! il grido della revoluciòn che si è consumata di fatto durante l’ultima notte delle stelle. Più forte perfino dei #metoo e del movimento Time’s up che contavano già su una finestra programmata a metà show e su tre madrine d’eccezione come Salma Hayek, Ashley Judd e Annabella Sciorra.

Ma l’organizzazione neo- femminista che ha rilanciato gli ideali di indipendenza e libertà della donna (e di altre fasce discriminate) contro il sistema fallocratico hollywoodiano, non si è affermata durante la notte delle stelle nel modo in cui molti si attendevano e cioè idealmente attraverso i verdetti. Basti pensare infatti che il celebrato “Lady Bird” della alleniana Greta Gerwig (che si è infelicemente dissociata dal suo maestro durante il clima arroventato del movimento) è rimasto letteralmente a bocca asciutta, non essendo riuscito a portare a casa neppure un premio a fronte delle cinque candidature di peso che vantava. E così il paese della terra color arancio e dello sgargiante Dia de Muertos è riuscito a prevalere nella vittoria principale (neanche così scontata) attraverso la favola freak e intrisa di realismo di uno dei suoi autori più rappresentativi e fra i più intelligentemente integrati nel sistema.

“La forma dell’acqua” di Guillermo Del Toro (affettuosamente Guillermone per i fan) si porta a casa 4 premi fra principali e tecnici (oltre al film e alla regia anche quelli per le splendide scenografie classiche e distopiche e per le note “liquide” e carezzevoli del francese Alexandre Desplat), suggellando non soltanto un trionfo dalle implicite e politicamente significative ricadute etniche, ma anche la rivalutazione di un genere, il fantasy, che non riceveva più riconoscimenti dal lontano 2004, anno di grazia di Peter Jackson e del suo “Ritorno del re”. Hollywood dichiara così il suo amore per questo generoso enfant che non intende crescere (proprio come il collega Spielberg pubblicamente riconosciuto da lui quale ispirazione durante il discorso di ringraziamento), per questo sincero, toccante metteur en scene di gallerie di mostri (propri e altrui) che non ha mai fatto sconti neppure ai suoi stessi freaks, inquadrati quasi sempre in cornici realistiche e in vicende dai risvolti violenti (il regime franchista de “Il labirinto del fauno”, la guerra civile de “La spina del diavolo” e oggi la guerra fredda ne “La forma dell’acqua). Fa eco a questa vittoria anche quella del Messico brandizzato, animato e toccante di “Coco” che con la sua animazione sgargiante e il suo messaggio di sincera devozione per la famiglia conquista l’Academy dopo aver commosso, assai più di altri film Pixar, platee trasversali e transgenerazionali. Se la sua “Remember me” (Oscar per la migliore canzone) ha prevalso sulle più gettonate “This is me” e “Mistery of love” (rispettivamente da “The greatest Showman” e “Chiamami col tuo nome”), non è tanto per superiorità musicale quanto per la capacità di attrarre tutti nel proprio abbraccio universale, semplice e caloroso quanto una lullaby sempre ricercata ma dimenticata. E “Coco”, più che per imposizione da industria Pixar, batte il più mirabile e sperimentale “Loving Vincent” per l’universale empatia suscitata.

Accantonata la fantasia (ma quella coi piedi ben piantati per terra) e venendo al realismo, gli Oscar 2018 non hanno dimenticato poi di volgere il proprio sguardo anche verso la Storia, le guerre e i personaggi che guidarono gli eventi. L’Oscar come miglior attore protagonista assegnato a Gary Oldman ripaga degnamente la carriera di un attore fin troppo trascurato dall’Academy. Meglio ancora poi se il suddetto risarcimento avviene per il tramite di figure iconiche come quella di Winston Churchill, maschera fisica e ideologica particolarmente fondamentale nella storia. Lo stratega inglese infatti è il sembiante fisico perfetto dietro il quale far “sparire” un volto, far emergere l’attore ed affermare un’idea di patriottismo spendibile anche per l’oggi (anche a costo di glissare sulle motivazioni più sottili che mossero le tattiche belliche del Primo Ministro). Due i premi vinti dal film di Joe Wright (trucco compreso), due vittorie che camminavano insieme fin dall’annuncio delle nominations. Lo supera numericamente di un soffio con i suoi tre meritatissimi Oscar (montaggio, sonoro, effetti sonori) l’altro film “storico” fra quelli candidati e cioè “Dunkirk”. Storico sol perché speculare a “L’ora più buia” nel racconto degli eventi. L’evacuazione di Dunkerque decisa ai piani alti del Governo diventa infatti nel film di Christopher Nolan un’audace, millimetrica riflessione sui concetti di tempo e di attesa in cui tutti i piani, fisico, psicologico e temporale, si frammentano, intersecano ed in ultimo si ricompongono, restituendo dell’atto di guerra una delle prospettive meno rappresentate nei film bellici e cioè lo spaesamento del “singolo” di fronte al “multiplo” e il significato dell’agire individuale nell’ottica dell’evento collettivo. Un grandissimo film “sensoriale” (ma non privo di cuore) in cui è la regia ad animare la tecnica messa a disposizione. L’Academy, forse un po’ risarcitoriamente, premia quest’ultima per non passare direttamente dal regista. Ma va bene così.

Va bene anche a Luca Guadagnino il cui osannato (a ragione) “Chiamami col tuo nome” si aggiudica un meritatissimo Oscar per la migliore sceneggiatura adattata firmata per l’occasione da un arzillo 89enne che risponde al nome di James Ivory. Giù i cappelli dinanzi a uno dei competitors più anziani che la storia delle stelle ricordi (anzi forse è il più anziano). Un premio perfetto per il film estero figliato da un italiano talentuoso e troppo poco celebrato in patria. Mirabile altresì perché l’unico riconoscimento (fra le quattro candidature ricevute) che il film è riuscito a ritagliare per sé all’interno di una selezione agguerrita e di altissima qualità. Basti pensare infatti che l’unico capolavoro fra i nove film candidati e cioè lo splendido “Il filo nascosto” di Paul Thomas Anderson, ha dovuto accontentarsi di un solo Oscar, quello già annunciato per i migliori costumi. Per un’opera colta e sopraffina come la sua e che si eleva ad altezze superiori a quelle degli altri pur validissimi candidati, le chances di ricevere altri riconoscimenti ufficiali erano del resto difficili. Ci auguriamo che la consacrazione di P.T. Anderson a questo punto sia solo rimandata.


Quanto alle consacrazioni giunte dopo anni di attesa, impossibile non segnalare quella per Roger A. Deakins, storico direttore della fotografia (Fargo, Kundun, Il grinta, Sicario) nominato ben 14 volte senza mai avere vinto e che quest’anno si è potuto portare a casa l’ambita statuetta per il formidabile lavoro di luci compiuto su “Blade Runner 2049”. Il film di Villeneuve è un altro assente pesante della selezione (e idealmente occupa quella decima nominations non utilizzata) ma ha saputo significativamente ripagarsi attraverso due premi tecnici che ne riconoscono ufficialmente il poderoso impatto visuale. Accanto a tali consacrazioni a lungo attese stanno poi le altre consacrazioni, quelle immediate. Alla sua prima nomination Allison Janney agguanta infatti l’Oscar per il suo ruolo (a detta di chi l’ha vista straordinario) di madre in “I, Tonya”, storia vera della discussa pattinatrice Tonya Harding. Due occhi intensi sgranati sul miglior cinema (American beauty, The hours, The Help) che finalmente il cinema ha deciso di guardare in faccia.

Emblema di cinema americano forte e ideologicamente scevro dai compromessi “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, dato dai bookmakers come sicuro vincitore, si porta a casa due premi meritatissimi agli attori e cioè a Sam Rockwell quale non protagonista maschile e soprattutto alla Mildred costruita sul corpo operaio e lo sguardo ferino di una magnifica Frances McDormand. Madre assoluta e fiero braccio della legge (non scritta) nel film di Martin McDonagh la musa dei Coen si ritaglia un ruolo destinato a lasciare il segno nella memoria dei cinefili, proprio come quello lasciato dal suo messaggio di ringraziamento (il momento più memorabile della cerimonia insieme all’irruzione a sorpresa e in diretta di un pugno di star in un cinema pieno di ragazzi). La McDormand infatti chiama in causa i presenti (il riferimento neanche troppo velato è a produttori e registi) invitandoli al rispetto della cosiddetta inclusion rider, clausola contrattuale di inclusività destinata a donne e minoranze. Alla fine c’è più time’s up in quelle due parole richiamate autoritariamente dall’attrice che nei video preparati ad hoc dalle colleghe con spilletta d’ordinanza.

Quanto al presunto “scippo” riguardante l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale, idealmente ceduto da “Tre manifesti” (premiato ovunque per il soggetto) all’ instant-cult “Get out”, va ricordato che quella del film di Jordan Peele non è storia così leggera o ruffiana. Se il registro adottato è infatti quello classico del prodotto di superfice targato Blumhouse (mentre McDonagh lavora su ambienti, intrecci fra generi e twist psicologici), il tema veicolato è quello metaforico e parecchio insidious delle nuove forme di colonialismo occidentale, di una “negritudine” relegata a cantuccio psicologico e di ultracorpi sostituitivi di quelli originali. Se il peso drammaturgico di “Tre manifesti” sovrasta enormemente quello basico di “Get out”, non si può dire tuttavia che il thriller prodotto da Jason Blum sia banale o privo di spessore tematico. Per questo la sua vittoria non può definirsi propriamente “scippo”.

Un Messico che reclama il degno riconoscimento identitario fra mostri che anelano amore e normalità (La forma dell’acqua) e il peso di una memoria che va custodita e amorevolmente nutrita (Coco). Donne solide come rocce (Tre manifesti) altre solo in apparenza manipolabili (Il filo nascosto), donne transgender che lottano per conquistare il diritto di respirare (Una donna fantastica, premio Oscar per il miglior film straniero al Cile) e adolescenti in cerca di un’identità di donna (Lady Bird). Un desiderio sessuale che cresce fra le intercapedini del fantastico e quell’altro che preme all’interno di corpi acerbi. La dignità nazionale (L’ora più buia), quella del vivere (Dunkirk) e di informare (“The Post”), l’orgoglio razziale (Get out) e quello emotivo-sessuale (Chiamami col tuo nome). Gli Oscar 2018 raccontano la fragilità nell’uomo-soldato e scovano la forza negli archetipi femminili, praticano il desiderio e proclamano il diritto di desiderare. Fremono di orgoglio razziale, sessuale, nazionale. Parlano tante lingue anche se decidono di abbracciare l’idioma semplice degli emarginati, colma della voglia di abbattere muri. Que viva Mexico! dunque. Che sia adesso e di esempio.

 

Andrea Lupo

 

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