Se cercassimo un termine capace di sintetizzare la filmografia dell’inglese Kenneth Branagh è sul dizionario francese che potremmo individuarla con facilità. Quella parola è grandeur. Grandiosità, sfoggio, esibizione. Il sostantivo che indica quel sentimento di orgoglio tipico dei citoyens francesi è infatti anche l’abito che meglio si adatta alle spalle del fulvo cineasta di Belfast. Perché Branagh la grandeur, nei suoi 28 anni di carriera, non l’ha soltanto costruita sulla propria fisicità ed espressività ma l’ha letteralmente introiettata in quasi tutta la sua tonante filmografia (uniche eccezioni i piccoli e deliziosi “Gli amici di Peter” e “Nel bel mezzo di un gelido inverno”), adattandola al linguaggio di quel mezzo che vale ogni riflettore speso: il palco. Ma se è noto che il suo principale imprinting formativo è imputabile all’opera del Bardo (ben cinque titoli sui quindici da lui diretti sono adattamenti da Shakespeare), ciò non vuol dire che l’artista irlandese non si sia abbeverato anche altrove per alimentare enfasi e magniloquenza del suo cinema. Ecco allora che accanto a produzioni dal taglio prevalentemente scenico quali “Enrico V”, “Molto rumore per nulla” e “Hamlet” figurano altri titoli – sapientemente distribuiti tra omaggi, remake e liberi adattamenti- che odorano anch’essi di sipario e proscenio. Opere sontuose e laccate che rileggono la fiaba (“Cinderella”), classici del gotico tonificati da infuocate messe in scena (“Mary Shelley’s Frankenstein”) e machiavellici divertissement dalla suspense visuale (l’algido “Sleuth”). Opere accomunate, pur nella diversità dei registri narrativi, dal proliferare di istrionismi recitativi, artifizi plateali e naturalmente di (messe in) scene madri. Perché esiste sempre un riflettore invisibile abilitato a separare il dialogo dal monologo ed è di quest’ultimo che Branagh vuol essere l’indiscusso mattatore. Anche al cinema. La settima arte diviene così il territorio ideale (dopo il teatro) ove allevare il proprio egotismo attraverso il tributo a numi tutelari della cultura inglese come William Shakespeare, Mary Shelley, Laurence Olivier e, per l’appunto, Agatha Christie.

“Assassinio sull’Orient Express” è, in tal senso, un punto d’arrivo obbligato nella carriera di Kenneth Branagh (e altresì di partenza dato che gli è stata già opzionata la regia di un nuovo “Poirot sul Nilo”), l’attesa incursione non tanto negli artifizi del giallo o del thriller (il misconosciuto “L’altro delitto” per tensione resta assai superiore a quest’ultimo), quanto nei territori letterari della sovrana del genere, autrice raffinata e affilata le cui trame e caratterizzazioni psicologiche forniscono un architrave scenico neanche troppo lontano da quegli schemi shakespeariani così cari al regista. Dal teatro inglese classico alla teatralità tutta inglese del giallo storico il passo è quindi breve per il regista di “Molto rumore per nulla” ed ecco allora che questo nuovo adattamento di un testo sacro della Christie (già portato sugli schermi da Sidney Lumet nel 1974 con esiti felicissimi) diviene immediatamente un nuovo contenitore di ossessioni e di piccoli egocentrismi d’autore oltre che un tassello ineludibile di una sorta di “fase due”, che da alcuni anni vede l’artista prestato alla causa “industriale” del blockbuster americano (Thor, Jack Ryan, Cinderella). La grandeur, oltre che british, è divenuta adesso anche un po’ a stelle e strisce.

L’opulente impostazione visiva del film mette subito in chiaro come stanno le cose. Il film è stati girato infatti nel formato dei 70mm (come già The Hateful Eight e Dunkirk), una scelta che coniuga idealmente la grandiosità del convoglio con la maestosità della pellicola che meglio impressiona il dettaglio. Una dichiarazione di mezzi e d’intenti assai poco equivocabile. Poi c’è il cast anch’esso grande e ovviamente all-stars (anche se non così eclatante quanto quello riunitosi al cospetto di Sidney Lumet nel 1974), una fotografia che non lesina in cromatismi paesaggistici (vagamente fantasy però) e infine una regia virtuosistica che si adopera fra carrelli (notevole quello in cui vengono presentati i personaggi), gratuite accelerate da graphic-novel (l’incipit tutto) e qualche bella intuizione (le inquadrature dall’alto durante la scoperta dell’omicidio). La grandeur contagia davvero ogni cosa in questo remake 2.0, perfino i leggendari baffi di Poirot, qui visibilmente in controtendenza rispetto a quelli piccoli e affilati di Peter Ustinov e Albert Finney. Una scelta assai vituperata da puristi e cinefili che però, a parere di chi scrive, non appare per nulla inappropriata sul volto vagamente alla Cagney di Branagh, perché riesce a sottolineare il diverso piglio di questo nuovo Hercule, a metà tra il maniacale, l’indagatore e il riflessivo. L’icona insomma ne esce comunque preservata al di là di ogni possibile esagerazione.

Sulla storia, anche se già nota agli appassionati della Christie e agli spettatori “attempati”, è doveroso tacere perché così è sancito nel codice deontologico sullo spoiler. L’orchestrazione ad ogni modo rimane sempre quella tradizionale della giallista: presentazione dei personaggi, omicidio, tanti soliti sospetti e una pletora di moventi riconducibili coerentemente a ciascuno di essi. A cambiare stavolta è l’approccio filmico della versione di Branagh rispetto alla prima trasposizione (apprezzatissima dalla stessa Christie per inciso). Perché se nel 1974 l’intrico giallo racchiuso nell’unità di tempo e luogo con dodici angry men e una sola coscienza che mira alla verità, rievocava per metafora lo stesso esordio registico di Sidney Lumet (12 angry men ovvero “La parola ai giurati”), con un treno-camera di consiglio e le sedute di auto-analisi dei sospettati, nel 2017 invece il gioco sequenziale degli interrogatori appare piuttosto “inscatolato” all’interno dei meccanismi rivelatori del giallo e non lascia spazio né a metafore di sorta né a quell’elemento che- com’era lecito attendersi da un devoto del Bardo- avrebbe potuto diventare qualità peculiare di questo aggiornamento e cioè la sua marcata teatralità. La versione di Branagh recupera quindi in lestezza e consequenzialità dello sviluppo giallo ma annacqua anche le potenzialità “performative” del cast, delegando a poche presenze carismatiche il compito di lasciare qualche segno (il sempre impeccabile Derek Jacobi e una fascinosa Michelle Pfeiffer che regge il difficile confronto con Lauren Bacall).

Tuttavia, anche prescindendo da alcuni impietosi confronti fra attori (la figura dell’assistente della vittima interpretato da un incolore Josh Gad si sgretola dinanzi al suo corrispettivo “classico”, quell’ Anthony Perkins che trasfondeva nel suo personaggio ossessioni materne e “psychotiche”, per non parlare poi del parallelo Penelope Cruz-Ingrid Bergman) spiace soprattutto vedere che a nessuno dei personaggi sia stato realmente ritagliato uno spazio ideale dentro quel metaforico palcoscenico bloccato su una rotaia. Poco male comunque perché al monologo ancora una volta ci pensa Branagh che, com’era lecito attendersi, si riserva nel finale un significativo assolo d’attore dinanzi a tutti i sospettati schierati in attesa della rivelazione. E’ qui che il nuovo adattamento si eleva al di sopra del semplice intrattenimento, riuscendo a chiamare in causa, attraverso i presunti colpevoli, anche gli spettatori stessi, portati giocoforza a riflettere sui temi non leggeri della colpa, della bugia e dell’assoluzione. Una chiusura accompagnata da toni più mesti ed amari, totalmente antitetica rispetto alla conclusione voluta invece da Lumet caratterizzata da echi briosi e festosi (in linea con la velata ironia di quella versione) e che si rivela tuttavia adeguata all’impostazione prescelta dal suo regista, soprattutto perchè in grado di richiamare la passata tragicità delle sue maschere shakesperiane. E ovviamente di far salva ancora una volta la sua grandeur.

Andrea Lupo