Iniziamo dalla fine. Da quel nastro speciale che si tinge inevitabilmente di rosa evocando, attraverso le parole sobrie e misurate di Cristiana Capotondi, l’attualità dell’impegno femminista contro lo spettro delle molestie sessuali. E’ il premio a “Nome di donna” di Marco Tullio Giordana il riconoscimento che permette a questa 73ma edizione dei Nastri d’Argento non solo di chiudere la serata con un’istantanea tutta al femminile (il palco invaso da tutte le vincitrici), ma anche di incardinare idealmente la cerimonia dentro l’attualità italiana di un #metoo ancora da raccontare. Per il resto l’edizione 2018 dei premi conferiti dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici, svoltasi come da tradizione al Teatro Antico di Taormina, è di quelle che ruggiscono più al maschile che al femminile, nonostante le ottime performance “rosa” premiate nelle corrispondenti categorie (protagoniste e non protagoniste). A fare la voce grossa sopra tutti gli altri infatti c’è il livido “Dogman” di Matteo Garrone che si aggiudica ben otto premi tra cui quello per la regia e per i suoi bravissimi interpreti Marcello Fonte (qui l’articolo sull’incontro con l’attore) e Edoardo Pesce, duo perfettamente complementare che scalza idealmente l’altro candidato “doppio” della cinquina e cioè il monumentale Toni Servillo del dittico “Loro”.

 

 

 

A “Dogman” anche premi tecnici come casting, montaggio, scenografia e sonoro (quest’ultimo ex-aequo con “L’intrusa”), ovvero tutto ciò che ha contribuito a creare l’altro fondamentale protagonista del film, dopo il pugile e il Canaro, e cioè quel paesaggio ai confini del nulla in cui si consuma la metaforica (più che fisica o cronachistica) fiaba sulla casualità del male. Una scelta quella dei giornalisti che, dopo il premio internazionale a Cannes, “ratifica” ulteriormente a livello nazionale il linguaggio cinematografico di Garrone, anteponendolo di fatto a quelli degli altri illustri colleghi in competizione. Ma se quelli di Sorrentino e Guadagnino sono linguaggi blasonati che hanno trovato ormai sicuri interlocutori all’estero (e dunque non “risentono” particolarmente dei premi non assegnati), dispiace invece vedere del tutto ignorata la densità tematica e stilistica del cinema di Alice Rohrwacher. Così a deludere maggiormente in questa edizione non è stato tanto il singolo e poco rilevante riconoscimento tributato al “piccolo” ma importante “A ciambra”(migliori costumi, ex-aequo con “Agadah”), quanto la totale indifferenza riservata allo splendido “Lazzaro Felice”.

Perché se le poche nomination ricevute (al film, alla non protagonista Nicoletta Braschi e alle scenografie) lasciavano presagire già un eventuale, magrissimo bottino, appare ugualmente incomprensibile la scelta di non conferire al film in questione neppure uno dei tanti nastri “speciali” elargiti ogni anno per le più svariate motivazioni (neppure al bravissimo esordiente Adriano Tardiolo), ignorando di fatto uno dei titoli più intensi e toccanti della stagione, espressione di un cinema capace di incanalare la propria sensibilissima autorialità nel solco amorevole della tradizione storica (Olmi, Taviani, De Sica). Nell’anno in cui ci hanno lasciato proprio due di quei maestri un premio speciale a “Lazzaro Felice” avrebbe costituito un segnale importante in termini di simbiotica eredità e continuità con quel cinema, facendoci sentire anche un po’ meno “orfani” di quei padri. E tutto senza intaccare minimamente l’autorità di Garrone, di Paolo Sorrentino (“Loro” si porta a casa comunque quattro premi pesanti, quelli ai tre attori tra cui Kasia Smutniak e alla sceneggiatura) o di Luca Guadagnino (che guarda già a “Suspiria” mentre il suo “Chiamami col tuo nome” qui si accontenta di un premio per il solo montaggio in ex-aequo con “Dogman”).

Nessuna quota rosa “imposta” quella qui richiamata, ma soltanto il giusto riconoscimento a un cinema bello, audace e al tempo stesso delicato che speriamo possa rivalersi ai David di Donatello 2019. Ancora un solo riconoscimento (quello per la migliore fotografia) all’Ozpetek arcano e sinuoso di “Napoli velata”, unico sguardo autoriale capace di imporsi veramente al box office italiano del 2018 (il Muccino del milionario “A casa tutti bene”- premio per il cast- e il Virzì americano di “Ella & John”- Nastro cinema internazionale- restano esempi di un successo che non converge sulla poetica dell’autore ma prevalentemente sull’appeal suscitato da tematiche e cast).

 

Ma se il dramma parla con le voci di due importanti autori maschili, nella commedia invece torna a ruggire un po’ più la donna. Così Claudia Gerini, interprete totale del musical “Ammore e malavita”, è l’ideale trascinatrice dei premi conferiti all’opera colorata ed eccentrica dei Manetti Bros (a lei il Premio Nino Manfredi, al film quelli per colonna sonora e canzone, senza però replicare il verdetto trionfante dei David di Donatello), mentre la “ruspante” Paola Cortellesi di “Come un gatto in tangenziale”, nastro per la commedia, si aggiudica il premio per la miglior interprete “leggera” in coppia con un bravissimo e sempre versatile Antonio Albanese. Anche il piccolo fenomeno (colpevolmente ignorato dal pubblico) “Gatta Cenerentola” si aggiudica il premio per il coraggio produttivo, l’innovazione e la qualità, mentre alla rivelazione italiana dell’ultimo festival di Berlino, “La terra dell’abbastanza”, viene assegnato quello per i migliori registi esordienti, i gemelli D’ Innocenzo. Infine a una rockstar come Ligabue va, piuttosto che lo scontato riconoscimento per le musiche, quello più prestigioso per il miglior soggetto grazie alla sorpresa “Made in Italy”, sua terza regia in 20 anni dopo l’ottimo “RadioFreccia” e “Da zero a dieci”.

Fuori dal cerimoniale serale (altri premi erano stati già assegnati a Roma) i riconoscimenti per Gabriele Salvatores (Nastro Argento Vivo cinema &ragazzi), al poeta della “luce” Vittorio Storaro (altro Nastro Cinema Internazionale per la fotografia de “La ruota delle meraviglie” di Woody Allen), ai fratelli Taviani per “Una questione privata” e il Nastro alla carriera per Gigi Proietti. In ultimo, fra premi Persol e Wella (rispettivamente Edoardo Leo ed Elena Sofia Ricci), nastri della legalità (ai purtroppo quasi invisibili “Prima che la notte” e “Nato a Casal di Principe”) e premi Biraghi per gli attori esordienti (Euridice AXEN, Gugliemo Poggi e Andrea Lattanzi), si segnala il sempre toccante trofeo intitolato a “Graziella Bonacchi” (andato quest’anno al giovane Luigi Fedele) che ricorda una delle più brave ed amate talent scout rubata troppo presto al cinema italiano da un destino crudele.

Cosa conserveremo nella memoria di questa premiazione dei Nastri d’Argento 2018 insolitamente più svelta e meno impacciata rispetto al passato (buona e senza scivoloni la conduzione di Carlotta Proietti, figlia del grande Gigi)?

Poche cose e qualcuna non del tutto memorabile. Innanzitutto è pesata l’assenza di un omaggio pubblico ai maestri appena scomparsi; non aver preparato neppure una clip per commemorare l’opera di Vittorio Taviani e di Ermanno Olmi è parsa una mancanza non da poco nei confronti della memoria di quelle personalità, fra le più “pittoriche” e potenti della nostra storia cinematografica. C’è stato poi quel contegno serioso e reprensivo esibito senza mezze misure sul palco dai giovani fratelli D’Innocenzo, espressione di una delusione tanto sincera quanto condivisibile (fare cinema nella propria terra solo per vedersi ignorato nelle stesse sale del belpaese non è aspirazione per nessun cineasta).

In mezzo poi i soliti videomessaggi di ringraziamento (stavolta è stato il turno di Riccardo Scamarcio, primo Nastro d’Argento della sua carriera che l’attore ritirerà durante le future edizioni), la bellezza genuina e la versatilità di Claudia Gerini, l’emozione contagiosa e disinvolta di una splendente Elena Sofia Ricci, una bella performance live di Serena Rossi di “Bang Bang” da “Ammore e malavita” e in ultimo l’espansività di uno smagliante Massimo Ghini (premio per i 40 anni di carriera insieme a Gigi Proietti) che arriva a chiedere simpaticamente venia al pubblico per il suo pittoresco abito bianco vistosamente ricamato. In ultimo (ma dovrebbe essere in primo luogo) da conservare ci sarebbe poi la memoria di quei film che hanno segnato la stagione ed il giudizio del sindacato, di quei titoli cioè che ancora oggi “arrancano” fra qualche multisala e le poche arene rimaste in cerca di affermazione (estiva) e soprattutto di una diversa visibilità popolare.

Ma non del solo pubblico però è la colpa se pensiamo per un attimo allo spazio che la tv cosiddetta “generalista” ha ritagliato anche quest’anno a una tale cerimonia di premiazione (per chi fosse interessato sarà trasmessa Venerdì 6 Luglio su Rai 1 alle 23,30). Relegata a poco prima della mezzanotte, la registrazione della serata precede appena il sonno dei pochi svegli a tarda ora, e all’indomani di una notte corroborante probabilmente sarà già stata dimenticata. Esattamente come i film?

Andrea Lupo