Le chiavi che mutano l’esperienza filmica in critica, e magari la critica in ulteriore esperienza, talvolta possono essere tra le più impensate. E chissà se fra queste non possa rientrare anche una canzone, quel motivo ricorrente, orecchiabile e delicato che ci ha accompagnato prima, durante e dopo la visione del film stesso. O se magari non sia stata proprio quella melodia ad ispirare il movimento che ha condotto alla creazione dell’opera, stabilendo di essa le cadenze emotive ed ispirandone il suo intimo passo di danza. Vedendo il primo, aggraziato trailer di “Shape of water”, rilasciato diversi mesi fa quando il Leone d’oro a Venezia e l’Oscar 2018 come miglior film erano congetture per molti impensabili, le note e i versi di Serge Gainsbourg e della sua “Javanaise” interpretata da Madeleine Peyroux, innescavano già questa delicata suggestione melodico-emozionale nello spettatore. L’incedere e il tono sembravano subito quelli di un film francese e magari francese lo era stato anche il respiro al suo interno, la musa non dichiarata che aveva ispirato l’altrove più severo autore (La spina del diavolo, Il labirinto del fauno) Guillermo Del Toro durante il processo creativo di questa sua nuova rilettura fantasy del mondo. “J’avoue j’en ai bavé pas vous mon amour. Avant d’avoir eu vent de vous mon amour. Ne vous déplaise. En dansant la Javanaise. Nous nous aimions le temps d’une chanson”(“Lo ammetto ne ho passate di tutti i colori non tu amore mio. Prima che arrivasse il vento del mio amore. Non ti dispiacere. Ballando la Javanaise. Ci amiamo il tempo di una canzone”). E’ bastato dunque il tempo di una strofa per innamorarsi subito del passo di grazia di un film in cui gli amanti ne passano di tutti i colori prima dell’arrivo di un vento più propizio. Creature strazianti che danzano sulle note di una muta e pudica javanaise assecondando l’arrivo del loro vento, mentre le acque sopra e intorno a loro plasmano una inedita forma d’amore fatta di rimembranze e desiderio, di acqua e cinema.

C’è chi ha mosso azzardatamente accuse di plagio nei confronti della storia concepita da Guillermo Del Toro per il suo “La forma dell’acqua”. Assai discutibili a onor del vero dato che la “forma” stessa del film è più che altro un rimodellamento di archetipi antichi quanto la storia (Apuleio, Madame Le Prince de Beaumont,) o moderni quanto una certa cultura pop cinematografica (“Splash”, “Free Willy”). Ma, prescindendo dalle somiglianze scaturite da paragoni certosini fra il film e l’opera teatrale “Let Me Hear You Whisper” (scene principali “incriminate” una canzone romantica in laboratorio e una danza della protagonista col mocio), a rendere poco significativa la polemica tutta è proprio la sincerità del cuore infantile che batte sotto il costato di un’opera la cui natura derivativa era palese fin dall’inizio (sfacciatamente l’autore “plagia” anche se stesso). Del Toro fa appello alla sua memoria di ragazzino, alla creatura amazzonica che nuota ancora sotto il black lagoon cercando di afferrare Julie Adams, al suo Abraham Sapien (“Hellboy”) sinuoso e sessuato e infine a tutto quel pulsare, sentire e vivere che scaturisce dagli spazi situati sotto le squame di un bozzetto o fra le increspature di plastica di un modellino. Brama di storie e desiderio dei loro feticci, frenesia di visioni e delle loro rielaborazioni, smania di narrare percependo “corporeamente” l’oggetto narrato e di fare cinema sentendosi parte “carnale” di esso attraverso la sua immediata proiezione modellistica (cercate la casa del regista e dite se non si tratta del sogno proibito di ogni nerd).

L’immaginario di Del Toro è, come lo definisce lui stesso, un gabinetto di note, collezioni ed ossessioni in cui la parvenza fantastica diviene subito concrezione tangibile e dove le creature desiderate, o immaginate, attendono di essere “possedute” prima dal suo autore ancor prima che da noi, in un ideale amplesso che segue a (e prosegue) quello cinematografico della pura visione. La sua filmografia è custodita dentro uno scrigno in cui immagini, suggestioni e sensazioni si annodano fra loro in strutture personalissime, infinite ed elicoidali, ed è un regno in cui creatore e fruitore spesso si confondono (o più dolcemente si fondono) in un abbraccio che resta innocente quanto l’infanzia, sincero quanto il narratore e potente quanto il cinema. Per questo non si può non credere a Del Toro al di là delle futili accuse di plagio. Per questo siamo persuasi a credere che sia stato solo quel desiderio di raccontare l’amoreux celato sotto la scorza del bestiale ad ispirargli, più che l’originalità di una storia, l’originalità di un approccio all’interno di essa. Se una canzone francese risuonava dunque nelle orecchie del suo autore (perché così sappiamo) questo accade perché era finalmente arrivato il momento di raccontarlo quell’amore, palesando il sesso -fin ad oggi negato- dei freaks e liberando metaforicamente gli infanti imprigionati e condannati dal passato (la Ofelia dal suo labirinto franchista, il fantasma del piccolo Santi dalla spina della menzogna). Dando loro quella seconda possibilità che la Storia più oscura una prima volta gli aveva negato.

Elisa Esposito (una meravigliosa Sally Hawkins), la trovatella pescata in fasce sulle acque, non è che un’altra bambina nella galleria dell’infanzia (s)perduta romanzata da Del Toro, la creatura innocente e scampata alla morte che assiste alla Storia (gli States durante la Guerra Fredda) ma che da questa non è stata schiacciata come invece è accaduto agli altri orfani. Non ha le ambizioni letterarie della sorella “gotica” che l’ha preceduta (la Edith Cushing di “Crimson Peak”) e neppure il suo candore virginale e romantico. La sua femminilità muta e in apparenza poco prorompente si libera invece con regolarità da orologio in un’altra dimensione, quella genitale ed orgogliosa dell’auto-erotismo dove le sono complici un uovo-orologio ironicamente metaforico e, soprattutto, l’acqua. E’ nella quiete amniotica e insonorizzata dell’elemento rigenerante per eccellenza che Elisa acquista quotidianamente senso, ed è lì che incontra, non a caso, l’unico essere che parla la sua lingua e a cui lei stessa è (pre)destinata. Quel fauno che fecondava solo simbolicamente il mondo fantastico della sfortunata Ofelia è divenuto oggi una creatura deltoriana, partorita fra citazioni e memorie, che può finalmente esplicitare la propria pan-sessualità (con Pan finalmente uscito dal labirinto) e concedersi a un amplesso “misto” fra i più audaci e sensuali mai visti sullo schermo. E se l’acme di questo sorprendente erotismo anfibio si riassume già nel dettaglio di quella scarpa che si perde nell’acqua durante l’abbraccio fra gli amanti (l’abbandono dei corpi sintetizzato in una delle immagini pittoriche più eleganti del cinema recente), il dialogo amoroso ed impossibile fra gli amanti trova invece l’apice della sua espressività nella più smaccata e plateale delle forme cinematografiche: il musical. In una breve sequenza-omaggio al sogno coreografico di Busby Berkeley si celebra il medesimo duetto che intercorse fra due diverse forme di cinema incapaci di dialogare neanche un secolo fa. Perché quando il cinema muto evolse in quello sonoro lo fece cantando. Proprio come Elisa sulle note romanticamente jazz di “You’ll never know“.

La vie ne vaut d’être vécue sans amour. Mais c’est vous qui l’avez voulu mon amour. Ne vous déplaise. En dansant la Javanaise nous nous aimions le temps d’une chanson” ( “La vita non vale la pena di essere vissuta senza l’amore. Ma sei tu che hai voluto vedere il mio amore. Non ti dispiacere. E Balla la Javanaise. Ci amiamo il tempo di una canzone”). Amarsi il tempo di una canzone. O di un ballo come la Java. Ma chissà se quella Javanaise la cui pronuncia suona così simile a  jeunesse non sia magari la celebrazione di una giovinezza, di un tempo dell’amore o di quello di un qualsiasi altro vivere che non andrebbe mai sprecato? “A volte penso di essere nato troppo presto o troppo tardi per il mio tempo. A volte penso che siamo reliquie tutti e due”. Così nel film Richard Jenkins, illustratore omosessuale sentimentalmente e professionalmente represso, riferendosi a se stesso e alla sua migliore amica Elisa, con cui condivide complicità, confidenza e qualche passo di tip-tap. Forse è la giovinezza o la sessualità non vissute, forse è l’amore non corrisposto o forse, più semplicemente, l’accordo-disaccordo fra noi e il tempo in cui viviamo (una sensazione provata da chiunque almeno una volta nella vita) a farci percepire quell’ammissione come dolente e veritiera al tempo stesso. I protagonisti de “La forma dell’acqua” lo sanno bene perché sono anch’essi fin dall’inizio reliquie. Vestigia di una divinità esotica e senza tempo (la creatura), residui di una violenza ingiustificata (la piccola Elisa operata alle corde vocali), vittime silenti di pregiudizi odiosi (il Giles di Richard Jenkins) scorie tossiche di conflitti inesplosi (lo Strickland di Michael Shannon) o avanzi di un idealismo senza più causa adeguata (il Dr. Hoffstetler). Soltanto l’esserne consapevole è cosa peggiore dello stesso essere reliquia. Non c’è personaggio infatti ne “La forma dell’acqua” che non viva (ora lievemente, ora amaramente, ora violentemente) quel disaccordo esistenziale col proprio tempo.

Ritiratasi la spuma della pura evasione tipica del genere, quel che residua della storia a fine visione è dunque il quadro, non necessariamente arrabbiato come in passato ma egualmente realistico, di un’epoca (gli anni ’50) che non ha molto da invidiare quanto a progressi a quella attuale. La levità di quella canzone leit-motiv smussa idealmente le asperità di una narrazione che Del Toro non ha voluto rendere meno violenta o potente delle precedenti (perchè la sua forza sta tutta in quel che residua a fine visione), ma soltanto priva di strepiti non necessari e con una risoluzione finale in cui potessero riflettersi (e sublimarsi) tutte le altre, quelle umane destinate ad altri esiti. E se molte cose ne “la forma dell’acqua” potrebbero apparirvi già viste o già sentite non è certo per via della sua storia ma è solo perché quelle storie le abbiamo già vissute.

Forse nel tempo di una canzone che dura tutta la vita.

Andrea Lupo