Nel rapporto tra opera letteraria kinghiana e la sua non rimandabile trasposizione cinematografica  (r)esiste da oltre quarant’anni una sorta di common law, una legge non scritta ma tramandata consuetudinariamente che delimita e determina gli esiti ultimi dello sponsale fra scrittore, regista e sceneggiatori. Una regola che chiama in causa proprio il tradimento, piuttosto che la fedeltà testuale, quale fattore essenziale per la tenuta del rapporto stesso. Kubrick, De Palma e Cronenberg (per citarne solo alcuni), autori la cui visione cinematografica travalica qualsiasi steccato letterario, lo sapevano bene e si sono serviti del più grande narratore americano di fine novecento come fosse un corpo statuario, bellissimo e al tempo stesso impossibile da possedere.

Ne hanno saccheggiato soggetti ed archetipi, riformulandoli visivamente all’interno del proprio universo e facendone i protagonisti di una singolare, talvolta inedita fantasia (Shining, Carrie, La zona morta). A dispetto del gradimento finale delle opere da parte dello scrittore (su tutte l’avversione malcelata di King nei confronti di quel serbatoio infinito di subconsci a nome “Shining”) potremmo affermare che il loro è probabilmente il rapporto più “erotico” fra tutti quelli stabilitisi nel tempo fra il cinema e Stephen King. Tutto il resto (o quasi) è rimasto ossequio, devozione interessata o meravigliosa suggestione cinefilo-orrifica (la Annie Wilkes di Kathy Bates, innegabilmente splendida, è e resterà sempre qualcosa di analogo ma al tempo stesso di dissimile dall’infermiera psicotica dello spiralico “Misery”).

“IT” di Andrès Muschietti incarna pienamente tutte le contraddizioni di questa relazione impossibile fra pagina letteraria e schermo (o possibile solo grazie a quel compromesso “sbilanciato”). Produzione mainstream stretta fra il senso di devozione verso la bellezza originaria (o “tanta roba” come recita quel dittatore immateriale e ideologico che è il web) e il desiderio di possederla mediante modalità condivisibili e collettive, opera che annienta (in)consapevolmente l’oggetto bramato durante l’atto stesso del congiungimento con esso. Un film che cannibalizza la pagina con le stesse fauci del suo clown protagonista ma che non la metabolizza a dovere proprio perché acefalo di una sua autentica personalità autoriale.

Ecco allora che “IT” film- Chapter one (bypassiamo per brevità la miniserie del 1990) solo se disgiunto dalla sua imponente fonte d’origine riesce a funzionare come intrattenimento globale e trasversale (come produzione Warner auspicava), oltre che quale contenitore di suggestioni provenienti dagli altrove incamerati in trent’anni di cinema dagli appassionati. La coralità adolescenziale di “Stand by me” ritorna così aggiornata agli anni ’80 (erano gli anni ‘50 nel romanzo), sebbene di implicazioni politiche conseguenti a questa scelta non v’è traccia e il tutto finisce per ridursi a un dorato trend musicale ad uso e consumo della generazione Netflix. Poco male però perchè è tale la bravura e l’espressività del giovane cast da farci dimenticare l’assenza di una significativa lettura critica (provateci voi a restare indifferenti di fronte all’espressività celeste di Bev o all’intelligente candore del perdente Ben). Poi c’è l’orrore, quel clown incarnazione di un epifania maligna che ritorna ciclicamente ogni 27 anni presentando il conto ai soli adolescenti. La trasfigurazione del Pennywise in icona horror veicolante l’intera operazione produttiva a onor del vero è impeccabile (e Bill Skarsgard con quel “Pop-pop!” pronunciato al povero George prima della sua macellazione è già da antologia del terrore ). Un po’ meno lo è invece l’idea di IT come entità adulta e pervasiva non soltanto in quei 27 anni di apparente dormienza ma all’interno della stessa camera adolescenziale. Perché se le apparizioni del Male multiforme nel film risentono di episodicità e schematismo (è l’era Wan, con tutti i pro e i contro del caso), quegli archetipi adulti cui è affidato il compito di intorbidire il vissuto domestico dei singoli (il genitore pedofilo, la mamma ipocondriaca e psicotica), paiono più un innesto motivato dal desiderio di riverire il passato (“ Dolores Claiborne”, “Misery”) che una efficace e complementare contestualizzazione della vicenda.

In “IT” di Muschietti insomma c’è molto del King che i lettori si aspettavano di trovare (quello che appaga sotto il profilo ludico-visivo), ma, paradossalmente, c’è anche la negazione dei tanti, complessi assunti kinghiani che rendono carne il suo multiforme corpus letterario. Un lavoro impeccabile dunque che incontra il gusto collettivo ma che fruttifica solo entro il limite dell’ossequioso compromesso fra pagina  e marketing e non in virtù di quel rapporto autoriale ed egoistico (erotico per tornare alla metafora iniziale) nel quale il meglio scaturisce proprio dal tradimento. Sintomatico allora che a mancare da questa (metà) trasposizione sia proprio la pagina più audace e significativa del libro: quella del rapporto sessuale fra Bev e il gruppo dei perdenti, consumata quale espediente di fuga, rito iniziatico e shock narrativo poco prima dello Chapter two.

L’eros ancora una volta, e negli anni dello sdoganamento sessuale, sembra essere qualcosa di infilmabile fuori e dentro lo schermo, assai meno di un arto infantile fatto a brandelli. Ci voleva un altro sguardo (o un altro tempo?) per restituire degnamente quelle pulsazioni fisiche e mentali, ma probabilmente entrambi sono già passati. Non ci resta altro che un buon film “difettoso”, amata-odiata e soprattutto obbligata visione di fine 2017 già predigerita dai social.

Cercavamo l’esperienza ma quella- lo affermiamo con un pizzico di presunzione- sta altrove.  

Andrea Lupo