Non una recensione ma qualche riflessione critica e pretenziosamente poetica intorno al celebrato film di Luca Guadagnino.

 

“Chiamami col tuo nome, includimi nella tua persona, annega la mia anima fra i flutti della tua, confondiamo le reciproche carni in unico bronzo consegnato alla storia del mare e dell’uomo, attraversando insieme secoli che durano una stagione o un’estate grave quanto l’antichità medesima”.

Se i titoli dei film celassero l’inizio di una poesia forse è così che si potrebbe, un po’ presuntuosamente, proseguire quella sollecitata da “Chiamami col tuo nome”. Ma la vanità letteraria di chi si erige a poeta per superbia giornalistica resterà comunque imparagonabile alla moltitudine di poesie silenziose che vanno a rielaborarsi dentro il pubblico al termine della visione dell’ultimo film di Luca Guadagnino. Perché le liriche “vissute” e recondite evocate dalle suggestioni cinematografiche (le fusa di una cicala, il vento che sbatte incessantemente le finestre, le memorie “gustative” di un frutto estivo consumato avidamente sul proprio ventre) resteranno sempre i carmi giovanili più belli e appassionati mai composti sull’amore. Non consegnati forse alla dignità dello scritto ma pur sempre esistiti e intimamente custoditi. La poesia del film risiede allora nel ricordarci di essere stati anche noi autori inconsapevoli di qualche verso sparso, forse una volta sola nella vita o un singolo giorno in un’estate. Che siamo stati realmente “inclusi” in un altro essere umano o che abbiamo goduto solo nell’ebrezza di averlo desiderato. In breve di esserci stati. Vivi.

Luca Guadagnino che su desiderio e consumazione (e consunzione) di esso nell’attesa ha costruito il suo cinema ardente, colto e denso di suggestioni artistiche (gli stessi titoli di testa di quest’ultima opera paiono un mash-up di foto, oggetti e frammenti che scorrono dinanzi a noi come pagine di un diario ellenico), con “Chiamami col tuo nome” inquadra l’amore dentro la sua cornice stagionale più illusoria, struggente e sfuggente, e consegna altresì quell’estate (l’estate di tutti gli Elio ed Oliver) alla mitologia dell’eterno, confinando l’unico dittatore riconosciuto del cuore (il tempo) nel proprio esilio di indifferenza. Le reciproche carni dei due protagonisti si (con)fondono in un bronzo che viene metaforicamente alla luce dall’acqua col suo carico di storia, arte e costume e perfino con una sua certa inconsistenza. Oliver lo tende scherzosamente verso Elio schernendo implicitamente la rilevanza del reperto, usando significativamente il passato come giocoso strumento di approccio nei confronti dell’altro. In una singola posa – la mano del bronzo tesa verso il ragazzo- il simbolo di ciò che ormai è remoto (quella statua concepita anch’essa intorno a un desiderio) si lega a quello che ancora è prossimo (l’altro desiderio che preme ed avanza), mentre sullo sfondo il peso serioso dell’antichità si stempera nella leggerezza del presente (quegli anni ’80 in cui niente sembrava potesse cambiare) e i sensi iniziano a disgelarsi. Le negoziazioni imposte dal tempo ai sentimenti non possono fare breccia nella calura estiva di una spiaggia. Perché a contare qui sono solo le vibrazioni.

“Chiamami col tuo nome”, perché “ti amo” comprende un solo “io”, la metà frastagliata di una foto, il cuore mozzato dei suoi vasi, un’ andata senza il suo ritorno”. Ma “io” esisto solo se mi ammetti al cospetto delle tue carni. Ed è in quell’amplesso che entrambi possiamo risorgere come dei”.

Se le poesie (presuntuose) potessero continuare forse è così che proseguirebbero. Perché l’inclusione dichiarata solennemente nel titolo (“chiamami col tuo nome”) è ammissione assai più forte di una semplice liturgia amorosa (“ti amo”) e appartiene, senza dubbi e ripensamenti, a quell’età di slanci, incoscienza e combustioni violente che è l’adolescenza. E’ lei la stagione che reclama a gran voce il riconoscimento da parte degli altri e che con più forza reclama anche il diritto di dissipare il proprio “io” (fisico, emotivo, esistenziale) in quello dell’altro. Solo nell’inclusione amorosa infatti è possibile riappropriarsi di quella metà frastagliata della foto che è stata così dolcemente strappata; solo in quell’estremo atto di abnegazione identitaria l’”io” rinuncia a se stesso per riaffermarsi appena dopo dentro l’altro, così sopravvivendo. Ed è nell’altra inclusione dei sensi, l’amplesso, che ci si può annullare nuovamente, trasfigurandosi da uomini in bronzi e da quelli fino a divinità. Guadagnino racconta di uomini e di statue, di giovani e di dei. Narra l’epica di un’adolescenza che attraverso l’amore vuol elevarsi sopra l’umano per abbracciare il divino. E parla dell’eternità di un amoroso sentire che non può sopravvivere nello sguardo reciproco degli spasimanti destinati a separarsi ma solo in quello di chi contempla da fuori il loro terminale abbraccio. Perché è sempre esterno lo sguardo in grado di cogliere l’assoluto nelle cose (come il padre confessa ad Elio). Perché, per sua definizione, l’ab-solutus è sciolto da ogni cosa e si eterna indipendente da tutto ciò che gli vive (e muore) intorno. “Io sono e sarò sempre l’amore”. E tutti gli altri giusto testimoni.

Se le storie cercano i finali le poesie fingono di cercarne uno. Così le prime toccano sempre terra mentre le seconde continuano a librarsi in volo. E se le storie trovano nella conclusione la propria razionalità, le poesie continueranno a danzare ciecamente intorno alle storie, dileggiando la logica e foraggiando le chimere.
Oliver ed Elio trovano la storia, toccano la terra e concludono il loro ciclo. Forse si ritroveranno ancora o forse mai. Forse le loro fibre non si intrecceranno più e i loro nomi cesseranno di inseguirsi. Perché questo vogliono le storie.
Ma le poesie restano presuntuose e continuano a librarsi sopra le vicende. Danzano leggere e capricciose, ignorando i destini e rifiutando le conclusioni. Intonano versi sull’amore come cicale estive ignare di morire l’estate stessa. Loro non raccontano ma “cantano”, cieche e volubili. Incoscienti della fine e della loro stessa fine…

“Chiamami col tuo nome” anche se il mio non lo rammenti più. Includimi nel tuo ricordo affinchè possa continuare a respirare. Anche se le carni sono distanziate e i cuori detenuti nel ghiaccio continua a cercarti nell’indefinito che sono diventato. Io cercherò te anche se neppure il nome tuo rammenterò. E ti chiamerò desiderio…”

…ed è l’incoscienza a renderle eterne. Proprio come quel sentimento che non cerca più nomi. E’ percezione dolce di un vuoto laddove prima c’è stato il pieno. Assenza delle stelle laddove prima v’era un firmamento. De-sidus dicevano i classici. Per questo lo chiamiamo desiderio.

 

Andrea Lupo