Sesso, sopruso, molestia, calunnia. Coordinate terminologiche che definiscono un contesto socio-mediatico globale (almeno quello degli ultimi due mesi). Indicizzazioni facili e immediate che sorgono dai motori di ricerca, attraversano e scansionano i cervelli dei singoli internauti per ripartire nuovamente dagli stessi, diversamente potenziate e rinvigorite nel loro loop. Inutile affermare il contrario: al popolo del web dei Panama Papers della regina Elisabetta importa quanto un fischio e il surriscaldamento globale è questione dei futuri pronipoti. Vogliamo tutti l’affaire sessuale, i Weinstein vogliosi e sudaticci, il disonore dei Brizzi e l’onore delle altre.

Le testimonianze sul passato dei molestati sclerotizzano ipotesi di reato recepite psicologicamente dai più secondo la nuova legge dell’attualità 2.0 : i fatti, per l’utente medio (l’indignado da tastiera) accadono nel momento stesso in cui li apprende (o giù di lì). Il sistema, secondo una speculare legge del contrappasso, si prende invece la sua rivincita sugli orchi (o presunti tali) rivedendone il passato remoto e rabberciando digitalmente quello prossimo. Resettando, sostituendo, cancellando. Il tutto al modico prezzo di un’identità altrui (quella lavorativa) e di una lavata di coscienza produttiva che- ad avviso di chi scrive- non fa bene tanto alle vittime quanto agli aggressori, perché si dimentica che fra quelle due forze, diseuguali e contrapposte, esiste anche l’omissione, la più contagiosa fra le opposizioni. Tutti i soldi del mondo (l’ultimo Spacey in carne e ossa) basteranno a comprare anche questa?

Prendere posizione diventa comunque d’obbligo nell’epoca degli schieramenti forzosi, perché così almeno sappiamo con chi abbiamo a che fare nel futuro del nostro quotidiano. Restare nella zona grigia invece pare che renda tutti dei qualunquisti, esecrabili campioni di un gruppo misto che, se non sceglie un preciso ruolo, lo fa solo perché in fondo vorrebbe stare con gli orchi (anche se non può dirlo). Ma la zona grigia in realtà al qualunquista sta bene in quanto posizione di comodo dalla quale seguire, un po’ cinicamente, l’evolversi delle dibattute vicende qualunque possa esserne l’esito finale o definitivo, si tratti della condanna dei singoli “mostri” o dell’auspicata riconversione sessuale di un atavico sistema di potere.

Il qualunquista “cinefilo” poi è ancora più cinico del qualunquista ordinario sopra descritto.
A lui non importa (tanto) dei Woody Allen, Roman Polanski o Bill Cosby del passato né intende rifarsi a vecchie storie di produttori dell’età d’oro che infierivano su Judy Garland o Elizabeth Taylor durante i loro provini. Lui se la gode piuttosto andando a ripescare nella sua personale memoria cinefila frammenti e frames provenienti da un immaginario- quello cinematografico- che aveva già trattato per immagini o metafore le spinose questioni richiamate dall’attualità. Lo fa con le sue associazioni mentali, le sovrapposizioni fra personaggi e protagonisti, colmando con le citazioni lo iato che separa realtà da finzione, usando proprio la materia di cui sono fatti i sogni (prima) e le notizie di reato (dopo).

Che il sesso comandi su tutto del resto lui lo sa già dai tempi di Sesso e potere, pellicola in cui si narra dei fanta-modi coi quali distogliere l’opinione pubblica da uno scandalo sessuale riguardante il presidente USA (è l’epoca della macchia umana), ricorrendo, pensa un po’, a una finta guerra creata ad arte proprio da Hollywood, macchina produttiva abile fin da allora nell’ armeggiare con le comparse digitali. Le fake news con tanto di supporto video per smuovere le coscienze forse nascono proprio da qui. Come sorprendersi allora di un Christopher Plummer “appiccicato” sul corpo di Kevin Spacey nell’ultimo film di Ridley Scott con lo scopo di distogliere il potenziale pubblico dalle accuse rivolte al suo protagonista?


E venendo proprio al protagonista di American Beauty, già celebrato John Doe di Seven e mitico Kaiser Soze de I soliti sospetti, come non associare le (ininfluenti) rivelazioni sui suoi festini coi ragazzi al largo della Costiera Amalfitana alle immagini delle feste in piscina per soli maschi organizzate disinvoltamente dal regista James Whale (Frankenstein, La moglie di Frankenstein)? Il film che raccontava di questa omosessualità godereccia e tormentata era Demoni e Dei con un già magnifico Ian McKellen e la rivelazione Brendan Fraser. Forse neppure nei pruriginosi e maccartisti anni ’50 le forme dello scandalo erano assimilabili a quelle attuali.

In tema di calunnia a sfondo sessuale impossibile non citare il doppio William Wyler de La calunnia (1936) e soprattutto del suo più esplicito remake Quelle due (1961) con Audrey Hepburn e Shirley MacLaine, insegnanti di un rigido istituto privato accusate di liaison amorosa per una ripicca infantile e irresponsabile. Più che l’omosessualità utilizzata quale assurdo capo d’accusa, a Wyler interessa piuttosto inquadrare l’intossicato contesto scolastico-ambientale delle due amiche e soprattutto studiare teatralmente le dinamiche pubbliche che seguono all’insorgere di una “voce”. Questa la pulsante materia prima cinematografica di un misconosciuto capolavoro che affronta la dialettica fra ambiente lavorativo e inclinazioni sessuali con rigore e lucidità ancora esemplari. Ne Il dubbio, dove in modo chiaroscurale viene affrontato (anche) l’insidioso tema della pedofilia e dell’opportunismo socio-familiare, il pettegolezzo viene definito dal prete interpretato dal compianto Philip Seymour Hoffman come l’onda mobile di piume che scaturisce da un cuscino squarciato in pieno vento: raccoglierle tutte è impossibile perché ormai le stesse si sono annidate negli angoli più reconditi e irraggiungibili, destinate per sempre a spostarsi più in là ad ogni cambio di brezza. Un’immagine sulla quale riflettere e misurare il nostro quotidiano bisogno di gossip.


Il contraltare delle pedofilia maschile potrebbe essere quello tutto virato al femminile di Diario di uno scandalo con Cate Blanchett e Judi Dench coinvolte in un triangolo incandescente fatto di pulsioni, reazioni e dinamiche di controllo (anche sessuale), che però non ha trovato al momento un casus reale in cui rivivere. E che dire di quell’indeterminazione che avvolge il tentato stupro intorno alla quale è costruito il bellissimo Passaggio in India di David Lean (1984)? Tra suggestioni nate dai luoghi (le grotte di Marabar), pulsioni personali e fervori coloniali, si indaga intorno a un fatto di violenza che assume contorni ben più sfumati e complessi del semplice episodio di violenza. E noi, con l’occasione, ci interroghiamo (anche) sugli ingranaggi dell’auto-persuasione: che cosa si è vissuto davvero quando lo si è vissuto?

Quelle voci dal set di House of cards, dove alcuni della crew hanno denunciato gli atteggiamenti predatori del “solito” Spacey, lungi dal non considerarle serie, il cinefilo qualunquista tuttavia non può fare a meno di associarle a quelle più ilari del George Gaynes di Tootsie, Dr.Brewster di finzione nella soap del film e mano lunga castigata (quasi) dalla Dorothy Michaels di Dustin Hoffman (pure lui, per restare in tema, finito nelle liste dei proscritti di Hollywood per molestie sessuali consumate in passato). 

Contro quel sistema accusatorio che ha già costruito una impalcatura personale e dalle diramazioni imprevedibili, c’è chi ha chiamato in causa una nuova tipologia di maccartismo fondato sul sesso in luogo della stregoneria, ed è un’ accusa quella sessuale che, diversamente dalla fede politica o dall’adesione al comunismo di cui al senatore McCarthy, non ha bisogno di ulteriori giustificazioni all’infuori di quella implicita nella sua stessa evocazione. Il parallelo operato non può che riportare alla memoria Wynona Ryder e Daniel Day-Lewis nell’angosciante La seduzione del male (1997, tratto da Il crogiolo di Arthur Miller), livida e “politica” escursione nei meandri psichici alterati di una Salem di fine 1600 che nessuno si augura più risorga.

A dire la sua su molestie sessuali e ambiente di lavoro c’è anche il bistrattato (all’epoca) Rivelazioni con Demi Moore e Michael Douglas, dove l’inversione delle parti (a molestare qui c’è lei invece di lui) non cambia molto la sostanza implicita dei rapporti di potere costruiti su avanzamenti lavorativi, mobbing e ricatti sessuali assai vicini alle descrizioni raccolte nelle testimonianze sul caso Weinstein. 

Le associazioni non finirebbero qui e il gioco del “qualunquista cinefilo dell’era Weinstein” potrebbe continuare ancora e ancora, tante volte almeno quante sono le memorie di celluloide e le suggestioni filmiche sedimentate nell’immaginario del pubblico durante un secolo di cinema.

Nessuna presa di posizione o pretesa di leggere la verità attraverso i film ovviamente, ma soltanto il sadico e mnemonico piacere di un gioco che forse è l’unico possibile nell’attesa di qualunque verità.

Andrea Lupo