La silhuoette di un villino si staglia in mezzo ai pini illuminati da luci natalizie. Dalla porta dell’abitazione esce una figura femminile che oltrepassa lo steccato del piccolo edificio. Zaino in spalla e fluenti capelli lisci la ragazza esita e si ferma un attimo, poi riprende nuovamente il suo cammino verso il buio, fino ai margini dello schermo. Unici testimoni i riflessi paglierini di una nebbia silenziosa, abbagliante e innaturale che inonda l’intera scena e la nostra stessa visuale. Donato Carrisi sceglie di affidarsi all’onirismo e alla suggestione per introdurre visivamente le vicende del suo esordio cinematografico (tratto da se stesso), e cioè la trasposizione del fortunato best-seller “La ragazza nella nebbia”.

E se un tale incipit potesse diventare subito promessa o dichiarazione d’intenti di tutta la narrazione successiva, forse avremmo già per le mani un gioiello sul cinema del disagio o un mistery di indubbia potenza evocativa. Quanto segue a questa straniante ed angosciosa sequenza introduttiva è invece una classica escursione dentro i territori del giallo investigativo all’italiana con tutti i pregi (visivi), le sovrabbondanze tematiche (d’autore) e i limiti (tipici dello psicodramma) del caso. Ma andiamo con ordine.

Il risultato finale portato a compimento da “La ragazza nella nebbia” è di quelli per i quali non si potrà gridare al miracolo di stagione ma che, da spettatori, si incassa con giusta soddisfazione e qualche appagamento. Carrisi dimostra infatti di possedere perizia e padronanza nella composizione visiva delle sequenze (modalità creativo-visuale imputabile al suo essere, innanzitutto, un romanziere) riuscendo a contestualizzare questa fitta e fosca vicenda di sparizioni giovanili dentro uno spazio (un montanaro e immaginario Avechot nel bolzanese) denso, sospeso e a tratti inquietante.

Quel che invece non gli riesce, in qualità di sceneggiatore, è di sacrificare parti della sua stessa creatura letteraria in favore di un’essenza e un’essenzialità cinematografica ben più potenti ed ambigue. Sceglie quindi per la sua fabula in nero la strada dell’esplicitazione piuttosto che quella dell’ombra, riducendo il suo atteso esordio più a un catalogo di archetipi (gialli) o a una galleria di volti e mostri (pubblici, privati e mediatici) invece di trasfigurarlo in quella ricognizione sulla natura del male, l’umana rimozione e l’ambiguità collettiva che sarebbe potuto essere.

 

Lo scrittore preferisce così dar risalto ai contorni piuttosto che alla sfumature, privilegiando l’evidenza invece del mistero e il twist al posto del (ragionevole) dubbio. Fa prevalere insomma- e a dispetto del titolo- il chiarore in luogo della nebbia. In questa gallery, che ha comunque dalla sua il pregio di raccontare verità nascoste partendo dall’epilogo e procedendo poi con un ritroso progressivo e incalzante (tecnicamente l’analessi letteraria), si stagliano un protagonista iconicamente noir (il cinico ispettore interpretato da un istrionico Toni Servillo), zelanti poliziotti di derivazione americana, vittime tragiche e psicologicamente intellegibili e qualche sciacallo televisivo dalle finalità critico-moralistiche (ma il grottesco sta sempre un passo accanto al kitsch). Personaggi che (ri)chiamano prepotentemente differenti dimensioni e contesti, lo stratificarsi dei quali però rischia di produrre più affollamento che complessità antropologica, più accenni tematici che lucide esplorazioni sociali (fra tutti quel sottotesto religioso appena abbozzato e che svanisce quasi subito in favore del dialogo fra indagine poliziesca e speculazione mediatica). Effetti inevitabili e riconducibili palesemente a quella scelta di rappresentare ogni piega e meccanismo propulsivo (anche psicologico) della storia, sposando di fatto la medesima filosofia cronachistica della tv spazzatura che, nelle intenzioni, si voleva stigmatizzare.

 

“La ragazza nella nebbia” dunque, per quanto avvincente sul piano della pura fruizione passiva (le due ore di durata non pesano affatto), manca però di quello scarto cinematografico ulteriore (la visione d’autore?) che avrebbe potuto permettergli di divenire materia(le) vibrante, coi suoi nuclei tematici potenti e personaggi trasfigurabili in proiezioni disturbanti capaci di erodere le certezze dell’osservatore. E’ un giallo elegante e qua e là sinuoso, ma anche un whodunit eccessivamente prigioniero della propria impellenza narrativa, schiavizzato suo malgrado da quel meccanismo che lo trasforma in cronaca inerte, osservabile da fuori e con animus incolpevole. Certo se tale esito fosse invece “voluto” allora anche il plastico di Avechot -quello che ricorre ingombrante nel corso della narrazione scandendo giorni e notti- diventerebbe subito allegoria dell’immobilismo che investe tutti i personaggi e valida metafora mediatica dell’indolenza di chi assiste allo show.

 

Nell’incertezza interpretativa, e scendendo giù dal nostro scranno censorio, non possiamo comunque negare al film del Carrisi-storyteller quella patente di noir che giustamente gli spetta. Da critici tuttavia continuiamo a preferire le intuizioni silenti (involute?) del regista, quelle destinate a restare impresse nei corridoi del subconscio cinefilo. Parliamo degli sguardi taciturni e narcolettici dei compaesani, delle muraglie di tronchi morti e delle distese dei pini viventi, delle croci bugiarde, dei fasci di luce e degli zaini composti come cadaveri sui tavoli d’obitorio. Ecco il cinema del disagio per noi (critici un po’ piantagrane) potrebbe ripartire da qui. E magari anche il prossimo esperimento dello scrittore-regista. Nel frattempo lo spettacolo -tutto italiano- si può godere. E di questi tempi non è neanche poco.

Andrea Lupo