Classico e avanguardistico a un tempo. Politico ma non semplicisticamente schierato. Intimo e universale. Dentro il genere ma mai realmente ascrivibile a esso. Il fuoco che brucia dentro il cinema di Kathryn Bigelow, rendendolo così netto e al tempo stesso così poliforme, è quello che avanza attraverso le volute impetuose di un’ ideologia solida e cristallina (per qualcuno reazionaria) e che percorre i sentieri definiti dai generi di riferimento. Sia che affronti l’horror vampiresco “infestato” più dal western che dai canini (Il buio si avvicina) o che celebri l’insolito matrimonio fra action e esistenzialismo (Point Break), il discorso filmico della regista premio Oscar non è di quelli che si esaurisce nell’autocompiacimento della propria maestria tecnica e narrativa (comunque altissime), ma è, piuttosto, un quadro che va componendosi fuori dagli stessi confini visivi e percettivi imposti dallo schermo, una visione che deborda consapevolmente verso l’attualità più tosta senza però divenire mai presuntuosa o pretenziosa. Un cinema dall’impianto coeso e dalle forme industriali, attraversato però dai fiotti di furore ideologico e politico alla Jason Pollock.

Detroit conferma la coerenza autoriale della sua regista (fra le più incrollabili nell’attuale panorama americano), riuscendo ad essere sia un potente corpo filmico storico – incentrato sui fatti relativi ai sanguinosi scontri fra polizia e comunità nera avvenuti a Detroit nel 1967-, che una rabbiosa meditazione sui ricorsi del presente americano e sul germinare di una violenza istituzionalizzata, e infine anche il riflesso intimista della genesi di una (dis)illusione di massa (in questo caso di un popolo, quello afroamericano). Tutto ciò senza che si allenti mai, durante i suoi serrati, tachicardici 143 minuti di narrazione, quel laccio che lega coerentemente i diversi generi affrontati (blaxploitation, docufilm, guerriglia urbana, thriller psicologico e racconto di formazione) e che intreccia in una forma omogenea la pluralità degli sguardi presenti (dai carnefici alle vittime, dai protagonisti alle “comparse”, dai testimoni reali a quelli presunti). Quello messo in pratica dalla Bigelow è una sorta di processo di disgregazione e successiva ricomposizione delle prospettive del racconto filmico che pare seguire la lezione del cubismo dinamico dell’artista black Jacob Lawrence, le cui Migration Series dello splendido incipit animato, celebrazione progressista dell’allargamento della spazialità, diventano l’eco perfetta di questa dichiarazione d’intenti della regista.


Ecco dunque che il documentarismo dell’epoca (stralci di giornale, reportage sui luoghi delle violenze) depone sullo schermo giusto quel substrato narrativo essenziale per la comprensione del quadro generale, mentre la scrittura cinematografica della finzione (o della realtà ipotizzabile) interviene sapientemente fin dentro i fossati inesplorati dello specifico fatto di cronaca (la lunga e sanguinosa notte consumata nell’ Hotel Algiers fra sevizie e confessioni estorte a un gruppo di studenti), plasmando tanto le forme irriproducibili -perché assurdamente non testimoniabili– degli omicidi, quanto quelle psicologiche e insostenibili del sopruso. Nella stretta fra il resoconto e la denuncia si colloca poi la più amara delle transizioni individuali, quella di un’anima (musicale in questo caso) che non conoscerà mai un autentico riscatto emotivo o sociale se non silenziando proprio il sogno o circoscrivendo il medesimo dentro gli spazi angusti della propria comunità ferita. Il canto di Larry Reed, mancato componente dei veri Dramatics segnato dalla violenze di cui è stato testimone, è un gospel che non gioisce e in cui viene a implodere non solo la nota del singolo ma il coro di un’intera nazione.

La Bigelow attraverso le vicende narrate in Detroit realizza un raccordo importantissimo fra privato e pubblico e fra anima individuale e individualità collettiva, nel quale si riverberano tanto i fantasmi di una contemporaneità temuta (quell’America che aspira ad essere great again a un costo ancora imprecisato) quanto le ombre di un passato (mai più rimovibile) incapace di diventare monito autentico per il presente. Un film storico che rielabora e riflette sul futuro? Sicuramente. Anzi potremmo affermare che Detroit sia perfino più fantascientifico dell’unico film di fantascienza girato dalla regista e cioè del suo capolavoro Strange Days, titolo che con quello condivide proprio il tema degli scontri fra polizia e rivoluzionari. Abbiamo già attraversato (e vissuto) quel passato mentre assumevamo lo squid futuristico e destabilizzante. Oggi, attraverso la rievocazione del fatto storico intravediamo invece proiezioni olografiche ambigue e funeste sul prossimo futuro. Sono ancora strani giorni, oggi come allora.

Una visione dilaniante e obbligatoria. Uno dei film più importanti di questo 2017.

Andrea Lupo