Quando il cinema d’intrattenimento incontra la letteratura illustrata per ragazzi quasi sempre è per il proprio tornaconto. Viaggi di carta e sogni d’inchiostro si traducono sul grande schermo in narrazioni accattivanti, personaggi manierati o smaglianti visioni da computer graphic che nulla o poco lasciano all’immaginazione. Il tutto per non alienarsi il seguito di un pubblico – tra adolescenza e preadolescenza- ritenuto meno intelligente di quello che è (o potrebbe essere) o affamato unicamente di emozioni superficiali. Quando però sono i cineasti a “cercare” quella letteratura può accadere che il rapporto si inverta: l’autore trova in certe storie a misura di pubere motivi ulteriori per raccontarsi o per mettere in scena la propria poetica delle immagini, mentre la letteratura rinviene nel cinema il medium ideale per sostanziarsi in una diversa ma altrettanto fedele rappresentazione di sè. Con Brian Selznick, affermato scrittore e illustratore per ragazzi, l’inversione di tendenza si è verificata già due volte: nel 2011 con Martin Scorsese e il suo celebrato “Hugo Cabret” e oggi con Todd Haynes che dal “Wonderstruck” del 2015 ha adattato il suo personalissimo “La stanza delle meraviglie”.

 

Ora chi scrive passerà sicuramente per presuntuoso nel raccontare la modalità del suo primo incontro con lo scritto di Brian Selznick -avvenuto in un assolato mercatino dell’usato- e delle sensazioni suscitate a fine lettura dallo stesso. Eppure, anche correndo questo rischio, è un minuscolo racconto che va riportato. Trovai il romanzo illustrato “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret” in una fiera estiva di città sotto una pila di libri consunti e impolverati e a un prezzo tra il ridicolo e il commovente. Sfogliandolo mi colpirono subito quei carboncini meticolosi che, complice anche lo stile conciso ed essenziale, incalzavano tra le pagine come inquadrature cinematografiche o zoom già filmati. Quando a fine narrazione, dopo i treni e gli orologi della stazione, i taccuini segreti e gli automi misteriosi, fu svelato che l’intera storia era stata concepita non come un’avventura alla Charles Dickens ma quale caloroso omaggio al cinema muto e al suo pioniere George Meliès, il mio pensiero non corse solo alle più ovvie parole “adattamento per lo schermo” ma soprattutto a quel Martin Scorsese che da anni si era fatto pioniere anch’egli nell’opera dei restauri eccellenti, soprattutto di tanti classici del neorealismo italiano.

 

Del progetto “Hugo” messo in cantiere a sua firma seppi invece (e mezzo “coccolone” mi incolse nell’apprenderlo anche se nessuno l’avrebbe mai sospettato) circa un anno dopo leggendo le riviste specializzate. Se la rievocata associazione fra scritto e regista scorreva in me veloce quanto l’industria al di là dell’oceano non è dato importante (anche se, come in un racconto per ragazzi speciali, rimuginavo sulla follia di averla determinata io quella particolare associazione, avendo per primo rinvenuto il “manoscritto perduto” sotto una pila di libri e avendolo associato subito al suo regista d’elezione). Ciò che conta piuttosto è che quella vicenda a metà tra un dickensiano racconto di formazione giovanile e la celebrazione dolce-amara di un genio francese e dell’epoca che ne ospitò le gesta, apparteneva già a Scorsese e al suo conclamato amore per la settima arte. Il cantore dell’antropologia criminale (Casinò, Quei bravi ragazzi, The departed), aveva trovato così una storia nella quale incardinare e poi sintetizzare quell’affetto per la settima arte, la sua stanza delle meraviglie della memoria da cui lasciar fuori per una volta la violenza e ove far accedere gli inediti (per lui) archetipi da racconto giovanile (l’orfanello, l’amica comprensiva, il bisbetico giocattolaio) necessari per condurlo fino a Meliès e dentro il cuore del suo straziante oblio. Perchè se è dolce precipitare nel nero prima che a rischiararlo ci pensi la luce di uno schermo, è doloroso invece piombare nel buio dell’incuranza, del disinteresse e soprattutto della dimenticanza degli spettatori. Accade a quei classici a cui nessuno pensa più (tranne Scorsese) o a quella celluloide tumulata per sempre dentro i tacchi per signore (le magiche sperimentazioni dell’illusionista francese).

E’ quindi grazie alla memoria del passato, di quello storico che riguarda le arti nobili (il cinema, l’illusionismo, l’arte dei giocattoli) e di quello biografico che coinvolge i singoli, che l’umanità scomposta nelle sue storie personali si rinsalda nuovamente trovando un diverso significato collettivo. Ed è proprio su questo doppio binario che scorrono le motivazioni della letteratura di Selznick: da un lato sta l’attenzione dell’autore ai microcosmi giovani e umani, dall’altro persiste lo sguardo amorevole verso ciò che di meglio quei microcosmi hanno prodotto negli ultimi secoli. Ieri erano le meraviglie cinematografiche di Meliès a metà fra invenzione magica e perizia artigiana. Oggi è la wonderstruck (lett. stupefazione) di fronte alle collezioni di cui l’uomo è capace, a quelle raccolte infinite di oggetti posizionati in armadi che attendono di schiudersi come anime (perché delle anime recano importanti frammenti cosmici).

“Stanze delle meraviglie” che compilano intimi diari sentimentali mentre sullo sfondo i musei descrivono un’altra biografia, quella naturalistica, implacabile e imperitura che ci comprende tutti. Oggi è dunque Todd Haynes a trovare in Selznick una voce letteraria ideale che amplifica il suo cinema e gli permette di incasellarne alcune parti dentro ideali e personali bacheche espressionistiche. Come Scorsese anche Haynes infatti aderisce puntigliosamente alla pagina scritta (e soprattutto illustrata) di Selznick per ricavarne un affresco colmo di amore per il mezzo cinematografico e altrettanto saturo di suggestioni provenienti dalla propria filmografia.

Le vicende dei due ragazzini (la bimba sordomuta nel 1927 e il ragazzo reso sordo da un incidente nel 1977) sono accomunate da un silenzio “forzato”, meraviglioso espediente narrativo che permette al regista di far parlare gli anni ’20 con il linguaggio del muto e i ’70 con la disco, limitando la parola a strumento non necessario (o necessario giusto per guidarci all’inevitabile risoluzione finale). Due storie parallele di ricerca parentale e affermazione identitaria che si alternano e annodano fra loro attraverso suoni e segni del cinema (un fulmine, un meteorite), che mappano geografie di luoghi ed oggetti sempre uguali eppure percepiti in modi sempre diversi perché differenti sono le proiezioni del desiderio che insistono su quelle crepe fisiche e temporali. Todd Haynes usa Selznick per parlare di queste verità universali e affida ai ragazzini il compito di elargirci una lezione progressista sui legami, lezione che i versi e le note di “Space Oddity” (leit motiv definitivo del film) non possono che ribadire: nessuno è solo nello spazio profondo, neppure il Major Tom di David Bowie che contempla dal suo oblò il paesaggio ormai lontano. Stranezze spaziali che ribadiscono l’universale.

Ma Haynes non si ferma a questo e si serve del romanzo “Wonderstruck” anche per allestire la sua personale stanza delle meraviglie, quella che fra le pieghe del racconto nasconde biglietti e barchette di carta recanti effigi del proprio cinema. L’estetica degli anni ’70 di Velvet Goldmine (con la disco music al post del glam), i carrelli per musiche ed immagini di “Carol” amplificati qui fino a (com)prendere metà film, le icone del suo passato (Julianne Moore, diafana creatura ambivalente sospesa fra la nevrosi di “Safe” e la prigione cromatica di “Lontano dal paradiso”). Simbolici tasselli disseminati qua e là, nascosti ad arte fra le strutture del racconto o custoditi dentro quelle di commoventi plastici rivelatori. Collezionista consapevole di se stesso Haynes fa così di questa wunderkammer (letteralmente “gabinetto delle meraviglie”) una sintesi silenziosa di tutto ciò che lo ha condotto a essere il cineasta di oggi, proprio come quelle collezioni private che fungevano da stadio embrionale dei musei. Che non si scambi però questa sottile auto-dichiarazione (d’amore?) come inutile vanità d’autore. Perché il collezionista originario (il film lo insegna) mette insieme le cose più significative innanzitutto per sé, inconsapevole che possano divenire domani un museo per altri. Il testo di Selznick dunque ancora una volta è servito e lo scopo finale del cineasta salvaguardato. Ma ancor di più ad essere preservato è lo sguardo limpido e smaliziato dei ragazzini, propulsore stupefacente (wunder) di un’altra storia che, dopo “Hugo Cabret” parla ancora di dolore, bellezza e memorie da condividere. Una vicenda da custodire ovunque o, preferibilmente, nella propria kammer. Imperdibili i titoli di coda sulle note di “Space Oddity” interpretata dai ragazzi del Langley Schools Music Project nel 1977. Un pezzo di storia e di musica anch’essa. Wonderstruck per orecchielibere ed integre.

Andrea Lupo