Il rosa si tinge di nero alla 75°edizione dei Golden Globes.
Ma se quello dello smoking maschile è d’ordinanza (a parte qualche fazzoletto in più per rimarcare l’idea), l’altro delle donne diviene inconsueta eccezione nell’annata degli scandali sessuali scoverchiati e delle denunce eccellenti a lento rilascio (ultime in ordine di tempo quelle all’oscarizzato Paul Haggis, regista di “Crash” e le accuse via tweet, con tanto di “specifiche” tecniche, all’indirizzo di James Franco). Ma chissà se quel rinunciare al colore (di sicuro non all’eleganza e a qualche scollatura) del dress code, polemico segnale di rivolta del sistema contro i suoi stessi abusi, non sia stato in certa misura anche un silenzioso leit motiv capace di influire sui giudizi dei giornalisti iscritti all’HFPA (Hollywood Foreign Press Association’s).
Perché a ben guardare mai come quest’anno i verdetti hanno finito per incoronare (giustamente per carità) talenti o produzioni in cui è evidente la centralità dell’elemento femminile.

A cominciare da quel “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” dominato da Frances McDormand, titolo che di premi pesanti se n’è portati a casa ben quattro (miglior film drammatico, miglior attrice protagonista oltre a quello per Sam Rockwell come non protagonista e alla migliore sceneggiatura), ipotecando quantomeno altrettante candidature agli Oscar e un sicuro alloro (la corrosiva sceneggiatura originale). Poi c’è “Lady Bird” con la sua vincente e sempre meravigliosa protagonista (Saoirse Ronan) che incassa anche il premio come miglior commedia; batte il favorito “The disaster artist” e soprattutto il fenomeno “Get out” che, senza lo scandalo Weinstein di mezzo, avrebbe potuto rappresentare una sicura scelta “politica” fra i titoli cosiddetti “leggeri”. Il film diretto da Greta Gerwig (dimenticata come regista in sede di candidature) surclassa anche uno dei preferiti della critica americana e cioè il tricolore “Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino che esce praticamente a bocca asciutta dopo gli osanna incassati nei mesi scorsi.

Ma se le tre candidature ottenute dall’Italia restano comunque un riconoscimento di peso per un regista ingiustamente bistrattato in patria (ma fortunosamente celebrato all’estero), il sospetto che su quella storia d’amore e di sesso fra un diciassettenne e un professore possa essere calato un velo di benpensante (in)opportunità -il richiamo alla presunta seduzione minorenne di Kevin Spacey- avanza strisciante. Vedremo. Non va bene neppure a Paolo Virzì il cui “Ella & John”, nonostante i magnifici protagonisti, non riesce a far (abbastanza) breccia sui giornalisti. Sacrificato totalmente poi il racconto “virile” e toccante di “Dunkirk” di Christopher Nolan, autore che anche quest’anno rischia di non vedere riconosciuto agli Oscar il suo talento di narratore avanguardistico e di impaginatore straordinario di cinema. Il tutto a beneficio (magra ma importante consolazione) di un autore dichiaratamente di “genere” come Guillermo Del Toro che con il suo “La forma dell’acqua” riscatta una vittoria (come miglior regista) che vale quanto un’affermazione identitaria. Quel Messico che risponde a testa alta a Trump e alle sue ipotesi di muro, quest’anno deve dire grazie tanto a lui quanto al piccolo, grande “Coco” (Golden Globe come miglior film d’animazione).

Riguardo alle migliori interpretazioni maschili i premi incoronano prevedibilmente il talento di Gary Oldman, che ha dovuto attendere un ruolo iconico (Winston Churchill) e montagne di collagene prima di essere riconosciuto finalmente bravo attore ne “L’ora più buia” (probabile il bis agli Oscar), e la versatilità di James Franco che in “The disaster artist” surclassa il talento canoro e ballerino del sempre bravo Hugh Jackman. Vedere salire poi sul palco una presenza scenica magnifica come quella di Alison Jenney (miglior attrice non protagonista per “I, Tonya”) è, per chi scrive, motivo di soddisfazione personale, dato che la splendida caratterista meritava da tempo i riflettori di un premio.

L’inno di autoaffermazione pop e circense dei freaks (la canzone premiata “This is me”) è l’unico premio agguantato dallo sfavillante “The greatest showman”, mentre Fatih Akin con “Oltre la notte” si aggiudica il globe come miglior film straniero un po’ a sorpresa, superando titoli del calibro di “The Square” e soprattutto il favoritissimo “Loveless”. E mentre il francese Alexander Desplat col premio per la colonna sonora a “La forma dell’acqua” bissa il globe ottenuto dieci anni fa per il “Il velo dipinto”, confermandosi uno dei più apprezzati compositori stranieri sul territorio americano, Oprah Winfrey, insignita di un meritato globe alla carriera, si ritaglia un posto nella storia della cerimonia, incantando tutta la platea con un discorso (nove minuti!) che la candida idealmente alle presidenziali del 2020. Il vero Black Globe è il suo, altro che dress code!

Nelle categorie dedicate alle serie tv vincono, come prevedibile, la visione distopica e tutta al femminile di “The Handmaid’s Tale” e la sua protagonista Elizabeth Moss (presente anche in “The Square”, film per il quale la vedremmo bene nominata come non protagonista agli Oscar), mentre nella commedia si afferma “The Marvelous Mrs. Maisel” con la sua protagonista Rachel Brosnahan, attesa dal pubblico italiano su Amazon Video a fine Gennaio.Tripletta di star per “Big Little Eyes” (tutti premiati, Nicole Kidman, Laura Dern e Alexander Skarsgard), incoronata anche come migliore miniserie. Nel comparto maschile vincono Sterling K.Brown per This is Us, Aziz Ansari per Master of none e Ewan McGregor per “Fargo”.

Nelle foto di gruppo dei vincitori dei Globes 2018 il nero domina come monito (momentaneo?) e anti-sistema, capace di innescare solidarietà ma anche qualche briciolo di legittimo sospetto. Perché dietro quel black carpet così tanto celebrato e politicamente “necessario” pare quasi di intravedere l’equivalente delle tuniche rosse di “The Handmaid’s tale”. Perché in quell’assenza di colore che non ammette opinioni o obiezioni potrebbero celarsi (pericolosamente?) gli stessi omertosi cromosomi all’origine dell’attuale sistema eraserhead, quelli che lavano via con un colpo di spugna monocromatico tutto ciò che è stato vagamente “contaminato” dallo scandalo, cancellando qualcuno dalla vista ancora prima che lo faccia la memoria. Ma questa voglia di “assenza di colore” fra le star, c’è da chiedersi, resisterà almeno fino al termine dei fatidici 55 giorni (a partire da oggi) che ci separano dagli Oscar? O l’ora più buia resterà solo un outfit hollywoodiano qualsiasi? Liberal quel tanto che basta per far sentire tutti più sollevati e soprattutto un po’ più chic?

Andrea Lupo